Il ladro di Bagdad
1924
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Regista
Tutto in questo film è progettato per servire un unico scopo: dare a Douglas Fairbanks un parco giochi degno della sua divinità fisica. Fairbanks è il centro di gravità di ogni inquadratura. Non è semplicemente un attore; è un fenomeno cinetico. In un'epoca in cui il cinema europeo, e in particolare l'Espressionismo tedesco, si contorceva nell'angoscia psicologica (pensate a Caligari o Nosferatu), Fairbanks è la risposta americana: pura gioia muscolare, il super-Io freudiano sostituito da un super-corpo nietzscheano. Il suo Ahmed non è un personaggio, è un'ideogramma di agilità. Il suo famoso sorriso, un lampo di denti bianchissimi, non è recitazione: è la promessa che, per quanto grave sia il pericolo, l'atletismo e l'ottimismo trionferanno.
E quale parco giochi. Dobbiamo inchinarci al vero co-autore del film: William Cameron Menzies. Il suo lavoro qui non è "scenografia"; è world-building al suo livello più sublime. Menzies, che avrebbe poi definito l'estetica di Via col Vento, qui crea una Bagdad che non ha nulla a che fare con la geografia o la storia. È una Bagdad dell'anima, un'illustrazione di Maxfield Parrish o Edmund Dulac che ha preso vita. Le scenografie sono mostruose. I palazzi non sono costruiti in scala umana, ma in scala mitologica. Le porte sono alte decine di metri, i minareti sembrano perforare la stratosfera, le piazze sono vaste pianure di marmo lucido. Perché? Perché questa architettura non è uno sfondo; è un avversario. È progettata per essere scalata, conquistata, dominata dal corpo di Fairbanks. L'architettura diventa coreografia. Ogni curva arabescata, ogni colonna tortile, ogni finestra a sesto acuto è una sfida o un appiglio per l'eroe. È l'estetica di Metropolis di Lang, ma svuotata del suo terrore sociale e riempita di meraviglia fanciullesca.
Il film è la quintessenza dell'Orientalismo degli anni '20. Non c'è un briciolo di autenticità antropologica, e questo è il punto. Questa è Le Mille e una notte come la sognerebbe un magnate di Hollywood. È l'Oriente come tela bianca su cui proiettare i valori americani. E il valore supremo, la didascalia che apre il film, è la tesi morale dell'opera: "La felicità deve essere guadagnata" (Happiness must be earned). Questo non è il fatalismo del kismet arabo; è il Vangelo di Dale Carnegie, è la celebrazione dell'individualismo e dell'auto-miglioramento. Ahmed, il ladro amorale e nichilista dell'incipit, deve smettere di prendere e iniziare a guadagnare. Deve trasformarsi da parassita a eroe.
Questa è la meta-narrazione più potente del film. Ahmed è Douglas Fairbanks. Fairbanks, il ragazzo d'oro d'America, co-fondatore della United Artists (lo studio che produce il film), ci sta dicendo che la sua stessa celebrità, la sua ricchezza, La Principessa (una sognante e passiva Julanne Johnston) che brama, non sono dovute alla fortuna, ma al merito. Il film è un'allegoria del Sogno Americano, travestito da fantasia esotica. Il ladro diventa principe non per diritto di nascita, ma attraverso una quest che è una successione di imprese capitaliste: deve trovare l'oggetto più raro e sconfiggere i concorrenti.
E che concorrenti. Il film orchestra una parata di pretendenti esotici che servono a cementare l'alterità di questo mondo fantastico. Abbiamo Il Principe Persiano, il Principe Indiano e, soprattutto, Il Principe Mongolo, interpretato con magnetica minacciosità da Sōjin Kamiyama. La sua ombra, la sua spia, è la letale Schiava Mongola, interpretata da una giovanissima e già leggendaria Anna May Wong, che ruba ogni scena con la sua presenza silenziosa e mortale. La loro minaccia "mongola" è la rappresentazione della "Marea Gialla", un tropo razziale comune all'epoca, ma che qui serve a dare ad Ahmed un avversario non solo fisico, ma quasi demoniaco, che controlla eserciti magici.
Ma dove il film trascende se stesso ed entra nel Canone è nella sua sfacciata celebrazione della magia cinematografica. Walsh e Fairbanks non hanno paura del ridicolo. Abbracciano il fantastico con un'onestà che disarma. Questo film è il DNA di ogni blockbuster fantasy a venire, da Ray Harryhausen a Guerre Stellari. Gli effetti speciali, supervisionati da Hampton Del Ruth, sono miracoli di ingegneria analogica. Il tappeto volante non è un goffo green screen; è un tappeto sospeso a cavi di pianoforte (visibili in alcune copie, il che ne aumenta il fascino) che si libra su una città in miniatura gigantesca costruita da Menzies. La corda magica che si srotola verso il cielo è un trucco di animazione stop-motion che fa impallidire i nostri CGI senz'anima.
La sequenza della "Valle dei Mostri" è puro cinema dell'attrazione: il ragno sottomarino, il drago sputafuoco, l'idolo con l'occhio di cristallo. Sono creature da incubo, ma presentate con l'eccitazione di un numero da circo. Fairbanks non le combatte con la spada, ma con l'astuzia e la polvere magica. È Indiana Jones mezzo secolo prima, un avventuriero che usa l'ingegno (e un budget illimitato) per superare l'impossibile. L'esercito che emerge dalla sabbia, evocato dal Principe Mongolo, è una trovata visiva che Spielberg e Lucas devono aver consumato alla moviola.
Con i suoi 155 minuti, il film è un'epica che non ha paura di prendersi il suo tempo, eppure, grazie alla regia di Walsh, non ristagna mai. Walsh capisce il ritmo dell'azione e la necessità della pausa contemplativa. Sa quando stringere sul sorriso di Doug e quando tirare indietro la macchina da presa per mostrare la scala impossibile del palazzo. Il suo stile è robusto, diretto, e serve perfettamente da contrappeso al lirismo quasi decadente delle scenografie.
Il ladro di Bagdad del 1924 è un paradosso. È un'opera d'arte visivamente sontuosa che celebra la gioia infantile del movimento. È un racconto morale profondamente americano mascherato da fantasia araba. È l'apoteosi del cinema muto come spettacolo totale, proprio mentre il sonoro si preparava a cambiare le regole. Soprattutto, è un monumento a un tempo in cui il cinema non voleva solo riflettere la realtà, ma costruirne una migliore, più grande, più veloce e infinitamente più divertente.
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