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Il male non esiste

2020

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Il titolo è una menzogna filosofica, una trappola tesa allo spettatore. Il Male non esiste (Sheytan vojud nadarad), ci dice Mohammad Rasoulof, e poi procede per 150 minuti a mostrarci esattamente dove si annida: non nei gesti plateali dei mostri, ma nella burocrazia quotidiana, nella firma su un documento, nello stipendio accreditato, nella pressione di un pulsante prima dell'alba. Si tratta di un samizdat cinematografico, un atto di accusa contrabbandato fuori da un sistema che ha condannato il suo autore al silenzio e al carcere. L'Orso d'Oro vinto a Berlino nel 2020, ritirato in absentia mentre il regista era (ed è) prigioniero politico, non è solo un premio; è il riconoscimento che questo è un cinema di necessità assoluta, un'opera la cui stessa esistenza è un atto di resistenza morale. Rasoulof non ci offre un pamphlet, ma un trattato sull'obbedienza, un frattale morale in quattro parti che esplora la stessa, lancinante domanda: quanto costa, in grammi di anima, premere quel grilletto?

La struttura del film è il suo primo colpo di genio. È un'antologia, un film a episodi che rifiuta l'unità narrativa tradizionale per un'unità tematica schiacciante. È il Decalogo di Kieślowski condensato in un unico, ineludibile comandamento: Non uccidere. Ma se il capolavoro polacco era un'esplorazione metafisica della morte in un'era di disgelo, quello di Rasoulof è un'urgente radiografia della complicità in un'era di oppressione. Ogni vignetta è una variazione sul tema della pena di morte, non come concetto astratto, ma come lavoro. Il film non ci mostra mai il "Sistema", i giudici, i politici. Ci mostra solo i suoi ingranaggi più piccoli e sostituibili: gli esecutori. È una dissezione quasi clinica della "banalità del male" di Hannah Arendt, dove l'orrore non è un'aberrazione, ma una routine. La prima storia è un capolavoro di depistaggio: seguiamo un uomo, Heshmat, nella sua vita quotidiana. È un padre amorevole, un marito premuroso. Lo vediamo fare la spesa, andare in banca, recuperare la moglie. È un ritratto di normalità quasi noiosa, finché il twist finale non rivela la natura del suo impiego notturno, illuminato da una gelida luce verde. L'uomo qualunque è il boia. La sua normalità non è la maschera del male; è il suo sintomo più terrificante.

Il film è una discesa progressiva dalla complicità passiva alla ribellione attiva, e una mappatura delle sue conseguenze. Se il primo segmento ci mostra chi accetta l'incarico, il secondo ci scaraventa nel panico di chi deve scegliere. È la storia più vicina al thriller: un giovane soldato di leva, Pouya, in un dormitorio claustrofobico, condiviso con altri commilitoni, tutti terrorizzati perché il loro turno di "tirare lo sgabello" si avvicina. Rasoulof cattura magistralmente il panico, la claustrofobia morale, la disperata ricerca di una via di fuga. La sua non è una ribellione ideologica, ma un'obiezione di coscienza viscerale, un "non posso" che è più fisico che etico. Il dilemma è spietato: per salvare uno sconosciuto, deve distruggere la propria vita (disertare, perdere la fidanzata, diventare un paria). Il sistema, ci dice Rasoulof, non permette la neutralità; costringe l'individuo a una scelta impossibile tra la propria sopravvivenza e la propria umanità.

Le ultime due storie esplorano l' "dopo", la vita che segue alla scelta. Il terzo episodio, su un altro soldato (Javad) che ha scelto la fuga per amore, fonde il romanticismo con la tragedia. Ha detto "no" all'esecuzione, ma quel "no" infetta ogni cosa. Il suo atto di integrità morale lo rende un fuggiasco, incapace di partecipare persino al lutto della famiglia della sua amata. La sua purezza lo ha reso un reietto. È un'eco dolorosa della stessa Antigone: la legge del cuore contro la legge dello Stato, dove seguire la prima significa essere sepolti vivi dalla seconda. Ma è nel quarto e ultimo capitolo che Rasoulof raggiunge la sua sintesi più potente, spostando l'estetica da un realismo urbano opprimente a un lirismo pastorale che ricorda Kiarostami. Due giovani, giunti dalla Germania, visitano lo zio Bahram, un medico che vive auto-esiliato in una campagna remota, quasi primitiva. Qui, la verità esplode come una mina. Lo "zio" non è chi dice di essere. La sua intera esistenza è una finzione costruita su un "no" pronunciato decenni prima. L'atto di disobbedienza non è un momento eroico, ma una condanna a vita. Il male che lo Stato commette non è solo l'esecuzione; è la menzogna che costringe i suoi cittadini a vivere, una contaminazione che si trasmette come un'eredità tossica.

Il Male non esiste è un'opera costruita su un paradosso: è un film formalmente rigoroso e controllato sulla perdita totale del controllo; è un'opera di finzione che possiede l'urgenza e la verità del documentario. Rasoulof rifiuta la facile retorica. Non ci sono eroi senza macchia, non ci sono carnefici con le corna. Ci sono solo esseri umani intrappolati in una macchina che chiede loro di disumanizzare il prossimo per rimanere umani loro stessi. Utilizzando generi diversi—il dramma familiare, il thriller da caserma, la storia d'amore tragica, il mistero rurale—Rasoulof dimostra come un singolo editto politico possa infettare ogni aspetto della vita. È un film che non alza la voce, ma la sua precisione chirurgica nell'incidere la coscienza collettiva è assordante. È la testimonianza di un artista che, privato della libertà, ha usato il cinema come l'unica libertà rimasta.

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