Il Matrimonio di Maria Braun
1979
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Regista
Rainer Werner Fassbinder è un regista che ha sicuramente donato nuova linfa alla scena culturale tedesca degli anni settanta, non solo dal punto di vista cinematografico, ma anche teatrale e narrativo. Ma definire il suo contributo semplicemente 'nuova linfa' è quasi un eufemismo. Fassbinder fu un autentico enfant terrible del cinema tedesco, un vulcano creativo la cui prolificità e la cui acuta sensibilità sociale ed estetica lo resero la figura più emblematica e irriverente del Nuovo Cinema Tedesco. Egli non si limitò a infondere vitalità; la sua opera rappresentò una disamina impietosa e necessaria delle patologie storiche e sociali della Germania post-bellica, un processo di scavo che ebbe pochi eguali in profondità e brutalità espressiva. Il suo cinema, profondamente debitore del melodramma hollywoodiano di un Douglas Sirk – maestro di cui Fassbinder era un fervente ammiratore e che reinterpretò in chiave squisitamente critica e disincantata – utilizzò le convenzioni di genere non per rassicurare, ma per smascherare le ipocrisie borghesi e le ferite irrisolte di una nazione in cerca di identità.
In questo film, Il Matrimonio di Maria Braun, vero e proprio vertice della sua filmografia e primo capitolo della sua 'trilogia della Repubblica Federale' (completata da Lola e Veronika Voss), Fassbinder eleva il melodramma a strumento di analisi storico-sociale. Analizza la vita di una donna sposata ad un reduce della seconda guerra mondiale: sconfitta, disillusione, mancanza di riferimenti culturali costelleranno la sua vita, facendone una figura paradigmatica di quella Germania appena uscita dalle ceneri. Maria è la personificazione di un intero Paese: una nazione svuotata di ideali, moralmente devastata, che deve ricostruirsi dal nulla, spesso a costo di compromessi etici e di una profonda alienazione interiore.
Maria è una donna passionale, s’innamora di un giovane sergente, Hermann Braun, in partenza per il fronte e lo sposa per poi perderlo nel vortice della guerra il giorno seguente. Ma la sua passione non è solo romantica; è una forza primordiale, una volontà indomita di sopravvivere e prosperare in un mondo che sembra deciso a distruggerla. Maria lo aspetterà invano recandosi tutti i giorni alla stazione ferroviaria sperando di vederlo comparire su uno dei treni in arrivo, in un'attesa quasi beckettiana che si carica di un significato simbolico potentissimo: è l'attesa di una nazione che cerca di recuperare un passato perduto, una normalità forse mai esistita. Ma la realtà si impone con la sua brutalità, e un amico del marito gli annuncia la sua morte.
Dato per disperso il marito Maria si getta nella prostituzione lavorando in un bordello per soldati americani, conosce così un ufficiale americano di colore diventando la sua amante. Questo passaggio non è solo una scelta di sopravvivenza, ma il primo, crudo passo di Maria verso l'adattamento cinico al dopoguerra. Il suo corpo diventa merce di scambio, un mezzo per ottenere cibo e riparo, rispecchiando la precarietà e la disperata pragmatica di una società allo sbando. La presenza dell'ufficiale americano di colore, Bill, è significativa: è un "altro" in una Germania che si stava ridefinendo, e la sua uccisione è un atto che sigilla il destino di Maria e Hermann, legandoli indissolubilmente in una spirale di sacrifici e compromessi. Ricomparso Hermann, scampato miracolosamente alla disfatta tedesca sul fronte, uccide l’amante americano per proteggerlo. L’uomo a sua volta, per proteggere Maria, finirà in prigione addossandosi la colpa dell’omicidio. Questo scambio di ruoli, questa interdipendenza sacrificale, è il perverso cemento su cui si fonda la loro relazione, una relazione che si nutre di assenza e di un amore distorto dalla necessità.
Nel frattempo Maria diviene la compagna di un ricco industriale francese, Oswald, scoprendo di avere un ottimo senso degli affari diventando in breve tempo un’abile manager. Questa ascesa è fulminea, quasi vertiginosa, e riflette il Wirtschaftswunder, il miracolo economico tedesco che vide la nazione risorgere dalle proprie ceneri con una velocità sconcertante. Maria incarna l'ambizione, la spregiudicatezza, la capacità di adattamento che furono la chiave di volta di quel periodo. I suoi vestiti si fanno più eleganti, le sue dimore più lussuose, ma il suo volto, magnificamente interpretato da Hanna Schygulla – musa e alter ego di Fassbinder, la cui espressività algida e al contempo ferita è centrale alla riuscita del personaggio – si fa progressivamente più duro, più impenetrabile. La Schygulla riesce a veicolare la solitudine glaciale che si annida dietro l'apparente successo, la cui eco risuona anche in altri ritratti femminili fassbinderiani, come quelli di Lola o di Veronika Voss, donne che, pur nel loro potere, rimangono prigioniere di sistemi maschili e capitalisti.
Maria in questo turbinio di eventi non abbandona mai la speranza di poter un giorno riabbracciare Hermann e poter condurre con lui una vita normale. Ma questa speranza è un miraggio, un desiderio di un'innocenza perduta. La "normalità" che Maria brama è una chimera, un'illusione che contrasta brutalmente con la realtà della sua esistenza, intessuta di sacrifici e di un cinismo acquisito. La sua intera esistenza è una costruzione artificiosa, un palazzo di carte destinato a crollare non appena la facciata viene meno. È fin troppo chiara la metafora che cela dietro il personaggio di Maria la Germania in piena ricostruzione post-bellica.
La tenacia, la forza, il cinismo che permeano le azioni di Maria sono le qualità che hanno permesso alla Germania di risollevarsi, ma a quale prezzo? Fassbinder ci offre un lucido e spietato spaccato della Germania del dopoguerra analizzando freddamente gli elementi che l’hanno portata ad essere una delle più grandi nazioni al mondo nonostante la sua quasi completa distruzione. Ma il regista non si limita a celebrare la resilienza. Egli svela la profonda scissione tra il successo materiale e il vuoto spirituale che ne deriva. La Germania del Wirtschaftswunder è una nazione che ha scelto di dimenticare il proprio passato, di seppellire le ferite piuttosto che affrontarle, concentrandosi unicamente sul progresso economico. Maria è la personificazione di questa amnesia collettiva e del costo emotivo che essa comporta. La sua ascesa è il trionfo della volontà, ma è anche il fallimento dell'anima, un'esistenza svuotata di autentici legami e di calore umano, sostituito dalla fredda logica del profitto e dell'accumulo. Il finale, con la casa che esplode e i ritratti dei cancellieri della Repubblica Federale che scorrono sui titoli di coda, è un colpo di genio, un commento tagliente e amarissimo: la Germania, rinata dalle proprie ceneri, è forse una bomba a orologeria, un'entità instabile costruita su fondamenta di negazione e repressione. La distruzione fisica di Maria e della sua casa è la metafora ultima di una ricchezza e di una stabilità intrinsecamente fragili, di un destino che non può sfuggire alle proprie contraddizioni. Fassbinder, con la sua inconfondibile audacia visiva e la sua intelligenza tagliente, non si limita a raccontare una storia; egli disseziona un'intera epoca, invitandoci a riflettere non solo sul come una nazione si rialza, ma sul perché e, soprattutto, sul cosa sacrifica sull'altare del progresso. Il Matrimonio di Maria Braun è, in definitiva, un monumento al genio di Fassbinder e un'opera essenziale per comprendere le crepe e le magnificenze di un'intera era.
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