Il mostro della laguna nera
1954
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Regista
La superficie dell'acqua è uno specchio infido. Riflette il nostro mondo, il cielo, le certezze della nostra epoca, ma nasconde un abisso. Sotto quella pellicola vibrante, il tempo non scorre in modo lineare; si stratifica, conserva ere geologiche e incubi ancestrali. Pochi film hanno compreso e sfruttato questa dualità liminale come Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, l'ultimo, grande sussulto mitopoietico della Universal classica, un'opera che trascende la sua etichetta di B-movie per diventare un poema tragico sulla solitudine e sull'irruzione del primordiale nel secolo dell'atomo.
Siamo nel 1954. L'America vive il suo sogno suburbano, ma le sue fondamenta tremano. La paranoia della Guerra Fredda proietta l'ombra del "diverso" su ogni cosa, mentre i test nucleari nel deserto risvegliano paure telluriche, la sensazione che la scienza, nel suo impeto prometeico, stia scoperchiando vasi di Pandora che sarebbe stato meglio lasciare sigillati. Il cinema di fantascienza di quegli anni è il sismografo di questa ansia collettiva. Abbandonati i castelli gotici e i villaggi della Mitteleuropa, l'orrore ora non striscia più fuori da una bara, ma emerge da un disco volante, da un bozzolo radioattivo o, come in questo caso, da un fossile vivente. L'imbarcazione "Rita" che risale il Rio delle Amazzoni non è dissimile dalla vaporiera che si addentra nel cuore di tenebra conradiano: è un'intrusione della modernità in un dominio sacro, un viaggio a ritroso non solo geografico, ma temporale, verso un'origine dimenticata, il Devoniano.
A bordo, l'archetipo dell'equipaggio scientifico anni '50: il ricercatore idealista David, l'ambizioso e predatorio Mark, e la scienziata Kay Lawrence, interpretata da una Julie Adams la cui bellezza non è solo accessoria, ma funge da catalizzatore drammaturgico. Sono l'avanguardia di un mondo che vuole misurare, catalogare, possedere. La scoperta di uno scheletro fossile con dita palmate li conduce alla Laguna Nera, un "paradiso da cui l'uomo non è mai tornato", un grembo acquatico isolato dal flusso dell'evoluzione. Non sanno che in quel paradiso vive ancora Adamo. O forse, qualcosa che lo precede.
E poi, appare. Il Gill-man non è semplicemente un "mostro". È una delle creazioni più sublimi e tragiche della storia del cinema. Il design della creatura, frutto del genio a lungo misconosciuto di Milicent Patrick, è un capolavoro di biomeccanica mitologica. Ha la possanza di un anfibio preistorico, la grazia innaturale di una divinità fluviale e, soprattutto, uno sguardo che non è puramente bestiale. In quegli occhi c'è una solitudine abissale, la malinconia dell'ultimo esemplare di una specie. A differenza del Dracula di Lugosi, aristocratico e decadente, o del Mostro di Frankenstein di Karloff, mosaico di umanità negata, il Gill-man è un puro prodotto della natura. Non è "malvagio"; è territoriale, curioso, istintivo. È l'ecosistema stesso che si difende, una forza della natura che reagisce all'invasione con la stessa ineluttabilità di un anticorpo.
La regia di Jack Arnold, un artigiano di straordinario talento che sapeva come infondere atmosfera e profondità psicologica in budget risicati, è magistrale nel costruire la tensione. Per la prima metà del film, la creatura è una presenza suggerita: un'ombra sotto la barca, una mano artigliata che emerge dall'acqua, un'eco visiva delle strategie di Val Lewton. Arnold gioca con la superficie dell'acqua come un velo che separa il conosciuto dall'inconoscibile, trasformando ogni immersione in una discesa nell'inconscio collettivo del pianeta.
Ma il cuore pulsante del film, la sequenza che lo eleva a poesia visiva, è il balletto subacqueo tra Kay e la creatura. Mentre Kay nuota in superficie, ignara, in un candido costume da bagno che la rende un'anomalia luminosa in quel mondo oscuro e verde, il Gill-man la osserva dal basso, nuotando in sincrono con lei, specchiandone i movimenti. Non è una scena di caccia, ma di contemplazione estatica e disperata. È un pas de deux surreale, un sogno erotico e terrificante che evoca la pittura di Max Ernst e il cinema di Jean Cocteau. In quel silenzio ovattato, rotto solo dalle bolle, si consuma un incontro impossibile tra due mondi, tra la bellezza apollinea e il sublime dionisiaco. La creatura, attratta da una forma di vita così aliena eppure così affascinante, allunga un braccio verso il piede di Kay, esitando a toccarla. È il momento più carico di pathos del film: un gesto di desiderio puro, non corrotto da sovrastrutture intellettuali, che è al contempo un atto di potenziale violenza. È qui che Il mostro della laguna nera pianta il seme che germoglierà, decenni dopo, nel capolavoro di Guillermo del Toro, La forma dell'acqua, che di questo film è la rilettura più esplicita e appassionata. Del Toro non ha fatto altro che prendere questo sottotesto di empatia e amore interspecie e trasformarlo nel testo principale.
Il conflitto che ne scaturisce è inevitabilmente tragico. Gli uomini, guidati dalla brama di cattura di Mark ("Pensa cosa significherebbe per la scienza!"), non vedono nella creatura un essere senziente, ma un trofeo, una anomalia da esibire, un fenomeno da baraccone per la civiltà. È lo stesso impulso colonialista che ha portato il King Kong di Schoedsack e Cooper in catene a New York. Ma mentre Kong era una forza della natura terrestre, il Gill-man è un'entità acquatica, più elusiva, più aliena. La laguna è il suo regno, e lì gli uomini sono goffi, vulnerabili, dipendenti dalla loro fragile tecnologia. Il film diventa così un precursore, forse involontario, del filone eco-horror: la natura non è uno sfondo passivo per le avventure umane, ma un protagonista attivo e vendicativo.
Anche l'uso del 3D, spesso liquidato come un espediente dozzinale, in questo contesto acquista un valore specifico. Le lance che sibilano verso lo spettatore, le mani artigliate che sembrano bucare lo schermo, non sono solo effetti da luna park; servono a infrangere la barriera sicura tra il pubblico e il mondo primordiale, a trascinarci fisicamente dentro la laguna, a farci sentire l'acqua sulla pelle.
Alla fine, il Gill-man, crivellato di colpi, si ritira nelle profondità da cui è venuto, ferito e forse morente. Gli "eroi" sono salvi, pronti a tornare alla civiltà. Ma non c'è trionfo nella loro vittoria. Hanno profanato un santuario, hanno ferito un dio minore e non hanno compreso nulla. Hanno guardato nell'abisso e l'abisso ha guardato in loro, ma essi, accecati dalla propria presunzione, hanno visto solo un mostro. La vera laguna nera, suggerisce il film, non è quella amazzonica, ma quella che ci portiamo dentro: l'incapacità di accettare ciò che è radicalmente altro, la spinta a distruggere o a imprigionare ciò che non riusciamo a comprendere. Il mostro della laguna nera rimane così un monumento malinconico all'ultimo mostro, un requiem per un mondo perduto che sopravvive, forse, solo nelle profondità insondabili dei nostri sogni più antichi.
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