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Il Mucchio Selvaggio

1969

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Alcuni bambini stanno giocando accanto al binario di una ferrovia, Pike Bishop, entrando in Paese, passa loro accanto osservandoli perplesso, la cinepresa si avvicina al gruppo di bambini e scopriamo che hanno intrappolato due scorpioni all’interno di un formicaio, i due animali sono attaccati da migliaia di formiche in un’atroce agonia.

Nonostante il potente veleno i due animali stanno soccombendo ad un numero così soverchiante di nemici. Una lezione di darwinismo spietato impartita con la crudeltà innocente dell'infanzia, un prologo che è un pugno nello stomaco e un manifesto programmatico. Non è una questione di giustizia o moralità, ma di sopravvivenza in un mondo che non fa prigionieri.

Peckinpah con questa incantevole metafora visiva ci fornisce la chiave di lettura per la sua storia, un’elegia crepuscolare per un’epoca al tramonto e per gli uomini che, come quegli scorpioni, sono condannati a soccombere alla marcia inesorabile del tempo e della modernità. Sono creature anacronistiche, relitti di una frontiera che si sta chiudendo, assediate da un nuovo ordine che non comprende, né tollera, il loro obsoleto codice d'onore.

La banda di Pike Bishop infatti sta entrando in paese per derubare una banca, ma una trappola li attende con cacciatori di taglie appostati negli edifici soprastanti pronti a prenderli di mira non appena usciti dall’edificio. Una trappola orchestrata da Deke Thornton, un tempo compagno di avventure di Bishop, ora costretto a dargli la caccia per sfuggire alla prigione. Questa dinamica di fratellanza infranta e lealtà tradita è un nervo scoperto che pulsa sotto la superficie di ogni sparatoria, conferendo al film una dimensione quasi tragica, un'inevitabilità alla greca dove il fato spinge gli uomini verso un destino segnato. Il legame tra Pike e Deke non è solo una sottotrama, ma il cuore pulsante del film: la disperata ricerca di redenzione o, quantomeno, di un senso in un mondo che ha perso ogni bussola morale. Entrambi prigionieri di un passato glorioso ma ormai insostenibile, sono costretti a recitare l'ultima, sanguinosa rappresentazione di un dramma che ha già visto il suo sipario calare.

E così dopo il fallito colpo Bishop e i suoi si ritrovano braccati da un gruppo di tagliagole capitanati da un ex membro della banda. Si dirigeranno in Messico, un territorio ancora selvaggio e senza legge, o almeno così credono, dove stringeranno un accordo con Mapache e la sua masnada di bandidos che combattono contro la Rivoluzione di Pancho Villa. Pike e i suoi, disperati e con le spalle al muro, dovranno derubare un carico di armi in cambio di denaro. Il Messico, in questo contesto, non è solo uno sfondo esotico, ma una terra di confine dove le regole si dissolvono e la violenza assume nuove, brutali forme. La Rivoluzione Messicana, con la sua furia iconoclasta e il suo tribalismo spietato, diventa un riflesso distopico dell'America che i protagonisti stanno lasciando alle spalle. In questo crogiolo di barbarie emergente, il vecchio codice dei pistoleri, per quanto grezzo, assume quasi una dignità cavalleresca, contrastando con la pura sete di sangue dei nuovi predoni.

Ma Angel, un compagno messicano di Pike, sottrae una cassa di armi per il suo villaggio fedele a Pancho Villa. Un gesto di onore ancestrale, un'eco delle fedeltà più pure e meno contaminate dal cinismo. Scoperto sarà ucciso da Mapache che subirà la sanguinosa vendetta di Pike e i suoi compadres. È in quel momento, quando Pike, Dutch e i fratelli Gorch decidono di salvare Angel, che la pellicola si eleva da mero western revisionista a epopea mitica. La loro "lunga passeggiata" verso il campo di Mapache, un passo dopo l'altro verso la morte certa, è un atto di sfida non solo contro i nemici, ma contro la propria stessa natura di opportunisti e sopravvissuti. È la loro ultima, sublime affermazione di un codice d'onore che, seppur intriso di violenza, possiede una coerenza e una lealtà che il mondo esterno ha ormai dimenticato. Non è più una questione di soldi o sopravvivenza, ma di dignità e di vendetta per un torto subito da uno dei loro. "Let's go!", esclama Pike, e in quelle due parole c'è tutta la furia e la disperazione di chi ha deciso di morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio.

Sanguinosa e memorabile la battaglia finale, una sinfonia di proiettili e carne lacerata, rallentamenti e accelerazioni che creano un balletto macabro e ipnotico, con il canto elegiaco della mitragliatrice che sembra segnare non solo la fine di un’epoca, ma l'apocalisse di un'illusione. È il rumore del progresso tecnico che divora l'eroismo romantico, la volgarità della guerra moderna che annienta l'epica del duello. Questa sequenza non è solo violenza gratuita, ma un'esplosione catartica e stilizzata, frutto di un montaggio frenetico e innovativo che impiegò fino a sette macchine da presa contemporaneamente per catturare ogni sfumatura di questo orrore coreografico. Peckinpah non si limita a mostrare la violenza, la glorifica e la condanna allo stesso tempo, rendendola quasi un rituale di passaggio verso il non essere.

Un film che in un certo senso segna il punto di rottura definitiva con una tradizione western legata all’epopea della frontiera e dell’eterno confronto con gli indiani, dipingendo un Ovest non più eroico ma sporco, brutale, crepuscolare. Non c'è la purezza morale dei film di John Ford, né l'ironia sardonica di Sergio Leone; c'è una disillusione profonda, una rabbia furiosa verso la perdita di un'innocenza (se mai è esistita) e la brutalità intrinseca della natura umana. "Il Mucchio Selvaggio" si inserisce nel filone dei western revisionisti degli anni Sessanta, ma li trascende con una ferocia e una poesia uniche. È l'atto di morte di un genere che si reinventa attraverso la sua stessa distruzione, aprendo la strada a quel "New Hollywood" che avrebbe poi decostruito molti altri miti americani.

Un’opera moderna e indistruttibile, con una potenza narrativa che sfocia nella pura evocazione di un mondo perduto e di uomini che, pur nelle loro oscure gesta, incarnano un'estrema e disperata fedeltà a sé stessi. La sua influenza è tangibile in generazioni di cineasti, da Martin Scorsese a Quentin Tarantino, che ne hanno assorbito la lezione stilistica e tematica, perpetuandone il lascito di violenza catartica, di personaggi al limite e di un'estetica visiva che non ha mai smesso di scioccare e affascinare. Un testamento cinematografico di come la fine possa essere, a volte, più potente di qualsiasi inizio.

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