Il ponte
1959
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Regista
Il cinema ha una relazione quasi primordiale con i ponti. Strutture liminali per eccellenza, sospese tra due rive, tra un prima e un dopo, sono catalizzatori narrativi perfetti, luoghi di scambio, di scontro, di transizione fatale. Eppure, pochi film hanno osato fare del ponte non solo il palcoscenico, ma il personaggio silenzioso e terribile, l'altare sacrificale di un'intera generazione. Bernhard Wicki, nel suo capolavoro del 1959, Die Brücke, compie proprio questa operazione, battezzando la sua opera con un nome che risuona di echi profondi nella cultura tedesca. Non è un caso, o forse è un caso di sublime serendipità cosmica, che il suo film condivida il nome con il movimento pittorico espressionista fondato a Dresda nel 1905. Quegli artisti, da Kirchner a Heckel, cercavano un "ponte" verso un futuro artistico non accademico, più autentico e brutale. Il ponte di Wicki, al contrario, è un passaggio verso il nulla, una passerella che conduce direttamente all'abisso della storia, un monumento all'assurdità che smaschera la vacuità di ogni retorica.
Siamo nelle ultimissime, convulse settimane del Terzo Reich. La macchina da guerra tedesca è un colosso moribondo che, nei suoi spasmi finali, divora i suoi stessi figli. In una piccola, sonnolenta cittadina bavarese che sembra ancora immune al fragore del fronte, un gruppo di sette ragazzi di sedici anni vive le proprie febbri adolescenziali: il primo amore, le gelosie, i conflitti con i padri, i sogni di gloria intrisi della propaganda tossica del regime. Sono ancora bambini che giocano a fare i grandi, fino a quando la realtà, nella forma di una lettera di coscrizione per la Volkssturm, la milizia popolare, non sfonda la porta delle loro vite. La loro tragedia non risiede tanto nell'essere chiamati alle armi – un destino comune a milioni di loro coetanei in ogni guerra – quanto nella grottesca farsa del loro incarico: difendere un ponte locale, strategicamente insignificante, che i loro stessi superiori si apprestano a far saltare.
Qui Wicki orchestra un cambio di registro magistrale, che ricorda la discesa agli inferi di un'altra grande opera tedesca sulla guerra, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. La prima metà del film è un delicato e quasi pastorale racconto di formazione, un bozzetto di vita provinciale che ci permette di entrare in intimità con ogni ragazzo. Conosciamo Albert, il più maturo, figlio di un gerarca locale; Hans, il sognatore innamorato della giovane bibliotecaria; Jürgen, figlio di un ufficiale caduto che cerca di emularne l'eroismo. Wicki ce li fa amare nella loro ingenuità, nella loro goffa spavalderia, rendendo la successiva mattanza non uno spettacolo di violenza, ma una straziante elegia personale. La loro innocenza è il capitale emotivo che il film investe, per poi dilapidarlo con una crudeltà calcolata nella seconda parte. Abbandonati da un sottufficiale veterano, cinico ma in fondo umano, che cerca invano di salvarli lasciandoli a guardia di un "non-luogo", i ragazzi, indottrinati fino al midollo, prendono il loro compito con una serietà terrificante. Il gioco alla guerra diventa la guerra stessa.
La sequenza della difesa del ponte è un pezzo di cinema che annichilisce per la sua brutale onestà. Wicki rifiuta ogni forma di estetizzazione della violenza. Non c'è l'eroismo coreografato del cinema bellico hollywoodiano coevo. La morte è sporca, improvvisa, goffa e insensata. Il primo a cadere, il piccolo Sigi, viene falciato dal mitragliamento di un caccia americano mentre è ancora perso nei suoi pensieri infantili. La sua morte non è un sacrificio, è un incidente grottesco. Da quel momento, il film si trasforma in una spirale di violenza che ricorda quasi una versione teutonica e bellica de Il signore delle mosche di Golding. Privi di una guida adulta, i ragazzi regrediscono a un istinto primordiale, applicando le regole distorte che gli sono state insegnate con una logica infantile e letale. Sparano, uccidono e muoiono non per la patria o per un ideale, ma perché è l'unica cosa che credono di dover fare. Il ponte diventa la loro isola maledetta, un microcosmo dove l'assurdità del conflitto universale si manifesta in tutta la sua purezza.
L'approccio di Wicki è quasi documentaristico, e non sorprende, data la sua esperienza come fotografo. La sua macchina da presa è incollata ai volti dei ragazzi, ne cattura il terrore, lo smarrimento, la folle determinazione che si trasforma in panico. Il bianco e nero, contrastatissimo e quasi espressionista, trasforma il paesaggio bucolico in un teatro di ombre e morte. I soldati americani non sono mostri demoniaci; sono figure quasi astratte, distanti, spesso inquadrate come semplici ingranaggi di un'altra macchina bellica. Uno di loro, colpito a morte, mormora qualcosa sulla sua fattoria nel Michigan, un dettaglio che spezza il cuore e demolisce ogni possibile logica di "nemico". Sono ragazzi che uccidono altri ragazzi, vittime inconsapevoli di un gioco molto più grande di loro.
Il film, uscito nel 1959, è un tassello fondamentale della Vergangenheitsbewältigung, il complesso processo culturale con cui la Germania Ovest ha fatto i conti con il proprio passato nazista. A differenza di molti film che si concentrano sui grandi crimini del regime, Il ponte sceglie un approccio più intimo e, per questo, forse ancora più universale. Non è un film sull'Olocausto o sulle strategie militari, ma sulla più subdola e pervasiva delle violenze: la corruzione dell'anima giovanile. È un atto d'accusa non contro un popolo, ma contro l'ideologia stessa, contro ogni forma di fanatismo che trasforma i bambini in carne da cannone. In questo senso, la sua risonanza va ben oltre il contesto della Seconda Guerra Mondiale, parlando a ogni generazione sedotta e abbandonata dalle promesse mortifere degli adulti.
La struttura narrativa del film può essere vista come una sorta di tragedia greca in due atti, con il ponte a fare da skené, la scena fissa davanti alla quale si consuma il destino ineluttabile dei protagonisti. L'ironia finale è di una crudeltà quasi insostenibile. Dopo che quasi tutti i ragazzi sono morti per difendere la loro inutile postazione, un'unità di guastatori tedeschi arriva per far saltare il ponte, ormai privo di ogni valore. L'unico sopravvissuto, Hans, vaga via dalla carneficina, uno zombie in uniforme troppo grande per lui, mentre una didascalia ci informa lapidaria: "Questo evento accadde il 27 aprile 1945. Fu così insignificante che non venne menzionato in alcun comunicato ufficiale".
Questa frase finale è la chiave di volta dell'intera opera. In un universo cinematografico che tende a trovare un senso anche nella tragedia più cupa, a santificare il sacrificio, Il ponte ha il coraggio di urlare che a volte la morte è solo stupida, inutile e dimenticata. Non c'è catarsi, non c'è redenzione, non c'è gloria. C'è solo lo spreco. Come in un dramma di Beckett allestito in un campo di battaglia, i personaggi compiono azioni rituali e insensate in attesa di un significato che non arriverà mai. Il ponte di Wicki, alla fine, non collega nulla. È una cicatrice sul paesaggio, un monumento all'assenza di senso, e il suo film è il più potente e disperato dei requiem per tutti i bambini a cui è stato rubato il futuro in nome di una bugia.
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