Il re leone
1994
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Registi
Un sole africano, di un arancione così saturo da sembrare un’entità liquida e primordiale, si leva su una savana che non è un luogo geografico, ma un palcoscenico archetipico. La voce di Lebo M. esplode in un canto Zulu che non necessita di sottotitoli, perché parla un linguaggio più antico delle parole, un richiamo che risuona direttamente nel nostro genoma culturale. L'incipit de Il re leone non è semplicemente una sequenza di apertura; è una dichiarazione d'intenti, un'epifania visiva e sonora che in meno di quattro minuti eleva un film d'animazione allo status di mito fondativo secolare. La Disney, nel 1994, al culmine di un Rinascimento artistico e commerciale che aveva già prodotto gemme come La bella e la bestia, non si accontentò di creare un altro successo. Ambì a forgiare una leggenda, un'opera capace di dialogare con le strutture narrative più profonde dell'immaginario umano.
Il cuore pulsante della narrazione è, notoriamente, un calco dell'Amleto di Shakespeare, una trasposizione così audace da sfiorare la sfrontatezza. Simba è il principe esiliato, Mufasa il re giusto e assassinato, Scar l'usurpatore fratricida Claudio, e persino il teschio di un animale, tenuto in mano da Scar durante il suo monologo, ammicca all'iconografia di Yorick. Ma ridurre Il re leone a un "Amleto con gli animali" sarebbe come descrivere 2001: Odissea nello spazio come "un film su un computer che non funziona". Il genio dell'operazione sta proprio nella distillazione. Il film epura la tragedia shakespeariana della sua complessa paralisi intellettuale e del suo nichilismo verboso, per riportarla a un nucleo pre-verbale, elementare, quasi biblico: la colpa, l'esilio, la redenzione. L'esitazione di Simba non è la crisi esistenziale del principe di Danimarca, ma il trauma di un figlio convinto di aver causato la morte del padre, un fardello psicologico che lo spinge a un auto-esilio epicureo. Timon e Pumbaa, con la loro filosofia dell'"Hakuna Matata", non sono semplicemente i Rosencrantz e Guildenstern della situazione, ma incarnano una tentazione potentissima: la fuga dalla responsabilità, il rifiuto della Storia e del lignaggio in favore di un presente edonistico e senza conseguenze. Sono i Lotofagi dell'Odissea, che offrono a un Ulisse imberbe il frutto dell'oblio.
Questo ci porta al contesto produttivo, un aneddoto che è diventato esso stesso leggenda. Durante lo sviluppo, Il re leone era considerato il "progetto B" della Walt Disney Feature Animation. La squadra principale, i talenti di punta, erano stati dirottati su Pocahontas, considerato il progetto più prestigioso, l'opera d'arte destinata a vincere gli Oscar. Il re leone fu affidato a un team di animatori più giovani e registi esordienti. Questa dinamica, quasi da "figlio minore", ha forse infuso nel progetto un'energia ribelle e una libertà creativa che sono finite per essere la sua arma segreta. Liberi dalla pressione di creare il capolavoro designato, i creatori hanno osato spingere l'animazione verso vette di epica visiva che ricordano più David Lean o John Ford che i precedenti film Disney. La sequenza della carica degli gnu, un incubo di polvere e zoccoli orchestrato con un uso pionieristico della computer grafica per moltiplicare le figure, non è solo un tour de force tecnico; è un'immersione terrificante nel caos, un momento di puro cinema del terrore che segna indelebilmente la psiche del giovane protagonista e dello spettatore. La savana stessa, con le sue pianure sterminate e i suoi cieli immensi, viene inquadrata con la maestosità di un western fordiano: la Rupe dei Re è la Monument Valley, e Mufasa, con la sua voce baritonale e la sua presenza regale (resa immortale da James Earl Jones), è il John Wayne del regno animale, un monumento alla paternità e all'ordine naturale.
L'estetica del film è un trattato di semiotica visiva. Il regno di Mufasa è immerso in una luce dorata, calda, che evoca prosperità e armonia. Il dominio di Scar, al contrario, piomba le Terre del Branco in un'atmosfera da crepuscolo degli dei wagneriano, con cieli malati di un verde-grigiastro e geyser di vapore sulfureo che eruttano dal terreno. È una palette cromatica che pesca a piene mani dall'Espressionismo tedesco, un'eco visiva di film come Il gabinetto del dottor Caligari o del Faust di Murnau, dove il paesaggio diventa un'estensione diretta della corruzione morale del tiranno. Scar stesso, con la sua eleganza decadente e la sua dizione melliflua (grazie a un Jeremy Irons che modella la sua performance su quella di George Sanders in Rebecca), è una figura di villain complessa e affascinante. Non è un bruto, ma un intellettuale frustrato, un Machiavelli felino la cui brama di potere nasce da un profondo complesso di inferiorità. La sua canzone, "Be Prepared" ("Sarò Re"), è un capolavoro di coreografia totalitaria, una parata di iene in passo dell'oca che evoca le adunate di Norimberga filtrate attraverso l'estetica di Leni Riefenstahl. È uno dei momenti più audaci e politicamente carichi nella storia dell'animazione mainstream.
Il tessuto filosofico del film è tenuto insieme dal concetto del "Cerchio della Vita", una nozione che trascende la semplice ecologia da cartone animato per toccare corde quasi stoiche o buddiste. Non è un'interpretazione edulcorata del ciclo predatorio. Mufasa spiega a Simba che, sì, loro mangiano le antilopi, ma quando muoiono i leoni diventano erba, e le antilopi mangiano l'erba. È una visione del mondo radicalmente interconnessa, dove ogni creatura ha un ruolo e una responsabilità, e il re non è un despota, ma il custode di questo sacro equilibrio. La tirannia di Scar è tale proprio perché rompe questo cerchio: il suo regno è basato sul consumo smodato e sull'avidità, prosciugando le risorse e portando la terra alla rovina. La sua è una visione lineare e nichilista della Storia, contrapposta a quella ciclica e rigenerativa di Mufasa. In questo, il film anticipa di decenni le ansie ecologiche contemporanee, presentando una favola potente sulla differenza tra la buona e la cattiva gestione delle risorse, tra la leadership come servizio e il potere come privilegio.
La colonna sonora è un altro pilastro del suo status canonico. La collaborazione tra Hans Zimmer, Elton John e Tim Rice è un caso di studio di perfetta sinergia. Le canzoni di Elton John forniscono i momenti pop e accessibili, ma è la partitura di Zimmer a conferire al film la sua gravitas omerica. Zimmer, attingendo pesantemente alle sonorità africane e alla potenza dei cori (grazie al contributo essenziale del già citato Lebo M.), crea un arazzo sonoro che è allo stesso tempo epico e intimo. Non è musica per un cartone animato, è musica per un poema epico. L'uso dei canti tradizionali non è un vezzo esotico, ma un'ancora che lega la storia a una tradizione orale e musicale antica, conferendole un'aura di autenticità e di tempo immemorabile.
Naturalmente, nessuna opera di questa portata è esente da controversie. Le accuse di plagio nei confronti dell'anime giapponese degli anni '60 Kimba il leone bianco di Osamu Tezuka sono ben documentate e le somiglianze, innegabilmente, sono a tratti perturbanti. Questo non sminuisce necessariamente il valore artistico de Il re leone, ma lo inserisce in un discorso più ampio sulla circolazione globale delle storie e sulla natura dell'ispirazione e dell'appropriazione culturale. Come Shakespeare attingeva a cronache e miti preesistenti, così la Disney ha rielaborato un amalgama di influenze (da Amleto alla Bibbia, con le storie di Giuseppe e Mosè, fino, forse, a Tezuka) per creare qualcosa di nuovo e potentemente risonante per il suo tempo.
Il re leone rimane un'opera monumentale perché riesce nell'impresa quasi impossibile di essere universale senza essere generica. Parla di famiglia, di perdita, di dovere e di crescita, temi che sono il fondamento di ogni narrazione umana. Lo fa con una tale sicurezza artistica, una tale padronanza del mezzo e una tale ambizione mitopoietica da trascendere la sua stessa natura di prodotto di intrattenimento per famiglie. È la storia della palingenesi di un re, il percorso di un eroe che deve morire come principe viziato per rinascere come sovrano responsabile. È la dimostrazione che l'animazione, nel suo stato di grazia, può essere la forma d'arte più adatta a raccontare le nostre favole più antiche e necessarie, dipingendo sulla tela digitale le ombre che danzano sulle pareti della nostra caverna platonica collettiva. È il momento in cui il Re ha reclamato non solo un trono di roccia, ma un posto nell'Olimpo del cinema.
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