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Il Sapore della Ciliegia

1997

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Kiarostami, regista raffinato e stilisticamente levigato, affronta il tema del suicidio con una sensibilità che trascende la mera rappresentazione, elevando la narrazione a indagine filosofica sull'esistenza stessa. La sua visione, lungi dal travisare i fatti o emettere giudizi, si astiene da qualsiasi implicazione etica preconfezionata, privilegiando una riproduzione fedele, quasi fenomenologica, della realtà così come si manifesta dinanzi alla sua cinepresa. Non è un’apologia né una condanna, ma piuttosto un’esplorazione paziente, quasi etnografica, di un abisso umano che, nella sua universale risonanza, resta pur sempre profondamente radicato in un contesto culturale specifico.

Ed è decisamente intrigante il modo in cui la storia riesce ad avvincere lo spettatore, coinvolgendolo non attraverso artifici drammatici o colpi di scena, ma con la forza di una semplicità semantica disarmante e un linguaggio filmico estremamente diretto. Un espediente che richiama alla mente il tratto distintivo del movimento neorealista italiano – la ricerca della verità nel quotidiano, l'impiego di attori non professionisti, la predilezione per le location reali – ma che Kiarostami filtra attraverso un'estetica sobria e raffinata, intrisa di un'aura di poetica astrazione. Il suo è un neorealismo depurato, quasi metafisico, che tende a privilegiare la suggestione icastica e la potenza evocativa del racconto, trasformando una strada polverosa o un campo arido in un palcoscenico per interrogazioni esistenziali. La macchina da presa, spesso fissa o in lenti movimenti panoramici, si fa occhio paziente, quasi voyeuristico, invitando lo spettatore a una partecipazione attiva nel decifrare i silenzi e le mezze parole.

Il signor Badii, protagonista la cui motivazione rimane volutamente ambigua fino alla fine, cerca disperatamente qualcuno che lo assista nei suoi propositi di suicidio. Ha già scavato la sua tomba sulle montagne, in un luogo isolato che riflette la sua condizione interiore, e gli occorre qualcuno che si prenda cura del suo corpo dopo la morte. Questa ricerca si snoda come un road movie esistenziale, interamente ambientato all'interno e attorno all'abitacolo della sua Range Rover, che si trasforma in una sorta di confessionale mobile, un guscio protettivo dove le barriere sociali si abbassano e le anime si confrontano. Lungo il percorso incontra diverse figure che rappresentano altrettante sfaccettature della società iraniana: un giovane soldato curdo, timoroso e ligio al dovere, un seminarista afghano, la cui fede gli impedisce di acconsentire a un atto così grave, e infine, quasi per un colpo del destino, un anziano contadino, il signor Bagheri. Questi incontri, apparentemente casuali, non sono che tappe di un pellegrinaggio interiore, ciascuna respinta da un limite morale o religioso, fino all'incontro con una saggezza semplice ma ineludibile.

Il signor Bagheri, seduto in auto con il protagonista, cerca di dissuaderlo dall'idea del suicidio con un monologo che è un vero e proprio inno alla vita, intessuto di piccole emozioni che salgono dal quotidiano, dalla più pura e immediata esperienza sensoriale: “Non vuoi vedere il sole all’alba? il rosso e il giallo del sole al tramonto? Non lo vuoi più vedere? Hai visto la luna? Non vuoi guardare le stelle? Al chiaro di luna? Quel cerchio tondo tondo della luna? Non lo vuoi più vedere? Vuoi chiudere gli occhi? Tutte queste cose sono da vedere. Dall’altro mondo vengono qui a vedere queste cose, e tu vuoi andare all’altro mondo? L’acqua fresca del torrente, non la vuoi più bere? Lavarti il viso con quell’acqua? Vuoi rinunciare al sapore della ciliegia?”. Questo passaggio è il cuore pulsante del film, un distillato di filosofia in pillole che riafferma il valore intrinseco dell'esistenza attraverso il richiamo alla meraviglia del mondo sensibile. Non si tratta di discorsi teologici o etici complessi, ma di un'ode all'ordinario, al banale, al tangibile: la luce che filtra, il gusto di un frutto, la freschezza dell'acqua. È una lezione esistenziale impartita dalla vita stessa, da chi ha conosciuto la fatica e la resilienza della terra. Il "sapore della ciliegia" diventa la metafora perfetta per quella gioia di vivere semplice e immediata, spesso oscurata dalla complessità del pensiero e dalla disperazione.

La bellezza del film risiede anche nel suo finale, che non offre soluzioni facili né risposte definitive, ma piuttosto un'apertura meta-cinematografica. Dopo l'ambigua scena in cui Badii si sdraia nella sua tomba sotto la pioggia e il suono del tuono, il film si conclude con un'improvvisa rottura della quarta parete: la transizione a immagini video che mostrano Kiarostami stesso, la troupe, gli attori che si fumano una sigaretta e parlano in un contesto più documentaristico. Questa scelta audace e sorprendente, quasi un tradimento delle convenzioni narrative, non è un vezzo stilistico, ma un atto deliberato che smaschera l'illusione cinematografica per riportarci alla realtà della creazione artistica. Essa ci ricorda che la finzione è un mezzo per esplorare la verità, e che le domande poste dal film non trovano risposta nella trama, ma nell'esperienza del suo farsi e della sua fruizione. È un invito a riflettere sulla natura del cinema stesso e sulla sua capacità di interrogarci senza pretese di omniscienza.

"Il Sapore della Ciliegia" è una lenta catarsi sotto forma di spoliazione terrena, un delicato inno ai sentimenti umani di fratellanza che si manifestano nella semplice interazione e nella condivisione di parole, anche le più semplici. È un vivido esempio di come il cinema di qualità, inteso come arte capace di trascendere le barriere culturali e linguistiche, possa fiorire lontano dai circuiti tradizionali di Europa, Hollywood e Giappone, affermando la voce unica e profondamente umana di una cinematografia, quella iraniana, che negli anni '90 ha saputo imporsi sulla scena mondiale con la sua originalità e la sua profondità. Un'opera di un fascino incredibile, quasi magnetico, che, lungi dal fornire consolazioni, lascia lo spettatore con un'eco persistente di domande sull'esistenza, sulla morte e sulla sacralità della vita in ogni suo minuscolo, inestimabile, sapore.

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