Il servo di scena
1983
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Regista
Esistono simbiosi in natura tanto perfette quanto terrificanti: il fungo cordyceps che si appropria del corpo di una formica, la vespa smeraldo che zombifica uno scarafaggio per farne culla alla propria prole. E poi esiste il rapporto tra "Sir" e Norman ne Il servo di scena di Peter Yates, una folie à deux teatrale così totalizzante e patologica da far impallidire qualsiasi parassitismo biologico. Il film, tratto dalla superba pièce di Ronald Harwood (che fu davvero il servo di scena del leggendario attore-manager Donald Wolfit), non è semplicemente un film sul teatro. È il teatro stesso che, come un Crono senescente, divora i suoi figli, lasciando solo l'eco di un applauso e l'odore stantio di cerone e polvere.
Siamo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Mentre fuori le sirene della Luftwaffe lacerano la notte inglese e le bombe ridisegnano la geografia delle città, dentro un cadente teatro di provincia un'altra guerra, più intima e forse più devastante, sta raggiungendo il suo culmine. Sir (un Albert Finney monumentale, un Re Lear prima ancora di truccarsi da Re Lear) è il titano a capo di una sgangherata compagnia shakespeariana itinerante. È un dinosauro dell'arte attoriale, un buco nero di ego e bisogno, un Ozymandias la cui memoria è già sabbia nel vento. Colto da un crollo psicofisico in mezzo a una strada, viene riportato nel suo camerino, un santuario decrepito dove il suo unico, vero sacerdote officiante è Norman (Tom Courtenay, in una delle performance più strazianti e minuziosamente costruite della storia del cinema).
Norman è il "dresser", il servo di scena. Ma la definizione è riduttiva, quasi offensiva. Norman è il custode della fiamma, l'architetto della fragile sanità mentale del suo padrone, il suo specchio, la sua memoria, il suo carceriere e il suo unico, vero amore. La loro relazione è un balletto disperato che ha la precisione di un rituale e la caoticità di un esorcismo. Ogni gesto di Norman – la preparazione del tè, la stesura del trucco, il suggerimento delle battute dimenticate – è una liturgia profana per evocare il dio del palcoscenico dal guscio tremante di un vecchio spaventato. In questo, il film si eleva a un'analisi quasi metafisica del rapporto tra creatore e facilitatore, tra l'artista e colui che ne rende possibile l'arte. Norman non è il Salieri di Sir; non c'è invidia, ma una devozione che sconfina nell'auto-annullamento. È più simile al Max von Mayerling di Viale del tramonto, che proietta le pellicole della sua Norma Desmond per mantenere viva un'illusione che è diventata la sua stessa ragione di vita. Ma se Max vive nel passato glorioso di Norma, Norman lotta per costruire un presente, una serata alla volta, per il suo Sir.
Yates, con una regia tanto invisibile quanto magistrale, trasforma lo spazio claustrofobico del backstage in un Kammerspiel dell'anima. Il mondo esterno, con le sue bombe e la sua Storia con la S maiuscola, diventa il perfetto correlativo oggettivo della tempesta interiore di Sir. La performance di Re Lear prevista per la serata non è più una finzione, ma la cronaca in diretta di una disintegrazione. L'ululato delle sirene si fonde con il vento sulla brughiera, la precarietà di un'Inghilterra sotto assedio riflette la fragilità di una mente che sta cedendo. In questo senso, Il servo di scena è il gemello oscuro e teatrale di un film come Mephisto di Szabó. Se l'Hendrik Höfgen di Brandauer stringeva un patto col diavolo nazista per continuare a recitare, Sir stringe il suo patto unicamente con la propria mostruosa vanità e con la servitù di Norman, ignorando il mondo che crolla per poter urlare ancora una volta la sua sofferenza sul palco. L'arte non è una fuga dalla realtà, ma un atto di sfida così puro e narcisistico da diventare quasi folle.
Le performance di Finney e Courtenay sono un duello di rara intensità, uno scontro tra due diverse concezioni del vuoto. Finney è una voragine espansiva: urla, piange, gigioneggia, si dispera, fagocitando ogni grammo di energia e attenzione nella stanza. È un buco nero che deforma lo spazio-tempo intorno a sé. Courtenay, al contrario, è un vuoto implosivo. La sua performance è un capolavoro di sottrazione, tutta costruita su gesti minimi, inflessioni vocali affettate che nascondono un dolore abissale, un'ironia tagliente che è l'unica sua armatura. È il Sancho Panza di un Don Chisciotte tragico, il Fool di un Lear che non sa più distinguere il palco dalla vita. Esiste un'intera vita non vissuta dietro gli occhi di Norman, un universo di desideri repressi e di amore non corrisposto che si manifesta solo nel modo in cui sistema un colletto o porge un bicchiere di brandy.
Il film è intriso di un'aura meta-testuale che lo rende un oggetto di studio quasi inesauribile. Il fatto che Harwood scrivesse della sua esperienza diretta con Wolfit aggiunge un primo strato di vertigine. Ma è la scelta di Re Lear come opera da rappresentare a sigillare il suo status di capolavoro. Sir non recita Lear, è Lear, abbandonato dalle sue "figlie" (le attrici della compagnia, la moglie), con solo il suo Matto, Norman, a proteggerlo da una tempesta che è tanto meteorologica quanto esistenziale. E la tragedia di Norman, che si rivela nel finale, è forse ancora più shakespeariana di quella di Sir. Dopo la morte del suo padrone e dio, Norman scopre di non essere nemmeno menzionato nei ringraziamenti della sua autobiografia. È il dramma del subalterno, dell'invisibile, di colui la cui intera esistenza è stata una funzione di un altro. È il dramma di Patroclo senza Achille, di Watson senza Holmes, dello strumento riposto nella custodia dopo che la sinfonia è finita. La sua disperazione finale non è per un'ingratitudine, ma per una cancellazione ontologica. Se la sua vita era servire Sir, e Sir non lo riconosce, allora la sua vita non è mai esistita.
Si potrebbe vedere in Sir e Norman una versione teatrale e beckettiana di Vladimir ed Estragon, due esseri intrappolati in un ciclo di attesa e dipendenza, dove "Godot" è l'applauso del pubblico, l'unica cosa che può momentaneamente riempire il loro vuoto. Ma a differenza dei personaggi di Beckett, qui esiste una gerarchia crudele, una dinamica di potere che rende la loro co-dipendenza ancora più dolorosa. Norman ha scelto la sua prigione, l'ha arredata con cura e ne ha lucidato le sbarre ogni giorno, scambiando la propria identità per la vicinanza a una forma di grandezza, per quanto decadente e tossica.
Il servo di scena è un'elegia per un mondo che non c'è più: quello delle compagnie di giro, degli attori-mostri sacri, di un teatro che era ancora rito collettivo e non semplice intrattenimento. Ma la sua portata è universale. Parla a chiunque abbia mai sacrificato una parte di sé sull'altare del talento di un altro, a chiunque abbia mai amato così tanto un'idea, un'arte o una persona da diventarne l'ombra. È un film che odora di polvere, sudore e disperazione, un testamento struggente sulla natura parassitica della creazione e sul silenzio assordante che segue l'ultima chiamata alla ribalta. E nel pianto finale di Norman, un lamento strozzato in un camerino vuoto, risuona la tragedia di tutti i servi di scena della storia, invisibili ingranaggi senza i quali la grande, magnifica, crudele macchina dello spettacolo si fermerebbe all'istante.
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