Il vento che accarezza l'erba
2006
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Regista
Esistono rivoluzioni che divorano i propri figli, e poi ci sono le rivoluzioni che costringono i fratelli a puntarsi il fucile al cuore. L'opera di Ken Loach, Palma d'Oro a Cannes nel 2006, non è un film storico sulla Guerra d'indipendenza irlandese; è una tragedia greca in tweed e fango, un'autopsia morale condotta con la precisione di un chirurgo e la compassione di un poeta. Se il cinema è la macchina che sonda le fratture dell'animo umano, Il vento che accarezza l'erba è uno dei suoi strumenti più affilati e dolorosi, un meccanismo narrativo che ci cala nell'epicentro di un paradosso: la lotta per la libertà che genera nuove, più intime e insanabili prigioni.
Loach, maestro indiscusso di un realismo che non fa sconti e che potremmo definire "della necessità", spoglia la narrazione di ogni orpello romantico. Lontano anni luce dall'epica hollywoodiana della ribellione, il suo approccio ricorda più la crudezza documentaristica de La battaglia di Algeri di Pontecorvo, ma traslata dalla casbah al fango fradicio di County Cork, e con una differenza sostanziale: laddove Pontecorvo orchestrava una sinfonia corale sulla tattica della guerriglia, Loach dirige un quartetto da camera stonato e straziante, focalizzato sulle dissonanze interiori dei suoi protagonisti. La fotografia di Barry Ackroyd, fedele collaboratore del regista, è complice in questa operazione di scarnificazione estetica. La sua camera a mano, nervosa e partecipe, non si limita a osservare, ma respira con i personaggi, trema con loro, si impregna della pioggia incessante e della luce livida di un'Irlanda che è paesaggio dell'anima prima ancora che teatro di guerra. Non c'è la bellezza pastorale di un John Ford; qui il verde d'Irlanda non è un simbolo di speranza, ma un sudario umido che assorbe il sangue senza fare distinzioni tra quello dei soldati britannici e quello dei ribelli irlandesi.
La narrazione si incardina sul dualismo archetipico, quasi biblico, tra due fratelli: Damien O'Donovan (un Cillian Murphy magnetico, la cui carriera di star internazionale era ancora agli albori) e Teddy (il solido Pádraic Delaney). Damien è un medico, un intellettuale la cui vocazione è salvare vite, strappato alla sua futura carriera londinese dalla brutalità dei Black and Tans. La sua è una discesa nell'agone della violenza per idealismo puro, una metamorfosi che lo costringe a tradire la sua stessa natura in nome di un principio più alto. Teddy è il pragmatista, il leader militare, l'uomo d'azione che crede nella lotta ma è pronto al compromesso quando questo si presenta sotto forma del Trattato Anglo-Irlandese del 1921.
È qui che il film compie il suo scarto più geniale e crudele. La prima parte, la lotta contro l'oppressore britannico, è quasi convenzionale nella sua chiarezza morale. Il nemico è esterno, riconoscibile, la causa è giusta. Ma è dopo la firma del Trattato – che concede all'Irlanda lo status di "Stato Libero" ma la mantiene di fatto un dominion britannico, spaccando l'isola – che Loach affonda il bisturi. Il nemico diventa interno. L'IRA si scinde, e i fratelli si trovano su fronti opposti. La loro non è più una disputa politica, ma una contesa filosofica che evoca echi profondi. Damien incarna l'intransigenza dell'ideale platonico, la Repubblica perfetta per cui nessun compromesso è accettabile; Teddy rappresenta la ragion di Stato machiavellica, la consapevolezza che la politica è l'arte del possibile, un gioco sporco fatto di accordi parziali e vittorie mutilate. La loro dialettica non è dissimile da quella che anima i personaggi dei grandi romanzi russi, intrappolati tra la purezza dell'assoluto e la corruzione del reale.
Il titolo stesso, tratto da una struggente ballata ottocentesca, è una chiave di lettura meta-testuale. Il vento che scuote l'orzo è l'inarrestabile soffio della storia, della coscienza nazionale che spinge i giovani a combattere. L'orzo, che secondo la tradizione cresceva dalle tasche dei ribelli caduti, simboleggia la speranza e la continuità della lotta. Loach prende questo immaginario romantico e lo rivolta come un guanto. Nel suo film, il vento della storia diventa una tempesta fratricida e l'orzo rischia di crescere su tombe scavate da mani amiche. La "terribile bellezza" di cui scriveva W.B. Yeats in "Pasqua 1916" si manifesta qui in tutta la sua ambivalenza, un parto glorioso e mostruoso al tempo stesso.
Loach non si limita a raccontare una pagina di storia irlandese; la usa come un prisma per riflettere sulla natura universale dei conflitti civili e della decolonizzazione. Uscito nel pieno della guerra in Iraq, il film dialogava potentemente con il suo presente, ponendo domande scomode sulla legittimità della violenza, sulla definizione di "terrorista" e "combattente per la libertà", e soprattutto su cosa accade il giorno dopo la rivoluzione, quando gli slogan si infrangono contro la prosaica necessità di costruire uno Stato. Le scene delle improvvisate corti repubblicane, dove si discute animatamente se sia giusto riscuotere un debito da una povera donna in nome della legge o applicare un principio di giustizia socialista, sono tra le più potenti del cinema politico contemporaneo. Mostrano come la vera rivoluzione non sia solo imbracciare le armi, ma reinventare la giustizia, l'economia, la società stessa. E come, molto spesso, questi sogni si infrangano contro la realpolitik.
La violenza, nel cinema di Loach, non è mai catartica né spettacolare. È sgraziata, goffa, terribilmente intima. La sequenza in cui Damien è costretto a giustiziare un giovane traditore, un ragazzo che conosce da sempre, è un capolavoro di anti-retorica. Non c'è musica a sottolineare il dramma, solo il respiro affannoso, le suppliche sommesse e il rumore secco di uno sparo che lacera il silenzio della campagna e, con esso, l'anima del protagonista. È un punto di non ritorno, la perdita dell'innocenza non solo di un uomo, ma di un'intera causa. In quel momento, Damien comprende che per servire il suo ideale deve diventare ciò che più disprezza: un uomo che toglie la vita.
Il vento che accarezza l'erba è un film che rifiuta le facili risposte e lascia lo spettatore con un fardello di domande irrisolte. Non prende le parti di Damien né di Teddy, ma mostra la logica ineluttabile e tragica delle loro posizioni. È un'opera che, nella sua specificità storica, raggiunge una universalità disarmante, parlando di ogni guerra civile, di ogni movimento di liberazione costretto a fare i conti con i propri fantasmi. Non è un manifesto, ma un'equazione morale insolubile, un trattato sulla fisica della Storia, dove ogni azione genera una reazione uguale e contraria, spesso all'interno dello stesso fronte, della stessa famiglia, dello stesso cuore. Un capolavoro spietato e necessario, che continua a sussurrare la sua verità amara ogni volta che il vento della discordia torna a scuotere i campi del mondo.
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