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Il Diritto d'Uccidere

1950

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Il film si intitola “In a Lonely Place” con un titolo evocativo e potente, ma il titolista italiano come al solito ci mette del suo e ne esce un titolo improbabile, “Il Diritto d'Uccidere”. Un’infelice traduzione che, pur richiamando il sotteso magma di violenza che ribolle nel cuore del protagonista, tradisce la sottile e struggente risonanza del titolo originale. “In a Lonely Place” è, infatti, la perfetta sintesi dell’essenza del film: l’isolamento psicologico, la desolazione emotiva, la prigione interiore che lo scrittore Dix Steele costruisce attorno a sé e, per estensione, attorno a chiunque osi avvicinarsi. Questo disallineamento tra intenzione autoriale e interpretazione distributiva, purtroppo comune nella storia della cinematografia italiana, funge da prologo involontario a un’opera che scava nelle crepe dell’animo umano con una lucidità quasi brutale.

A dispetto di questo, l’opera è uno splendido archetipo del genere noir, e al contempo una sua audace decostruzione. Nicholas Ray, con un tocco da maestro, non si limita a dipingere le ombre e le luci tipiche del genere, ma le usa per illuminare i recessi più oscuri della psiche. Non siamo di fronte a un mero mistero da risolvere o a un complotto da svelare; il vero enigma qui è l’identità interiore del protagonista, la natura della sua violenza latente, il precipizio morale e psicologico su cui la sua esistenza è costantemente bilanciata. È un noir che si spoglia dell’intreccio poliziesco per farsi dramma psicologico puro, quasi freudiano, dove il pericolo non viene dall’esterno, ma dalla minaccia di un’implosione interna.

Notevole l’interpretazione di Bogart nel ruolo di uno scrittore di best sellers trash, violento e paranoide, sospettato di aver ucciso una ragazza conosciuta occasionalmente. È forse la sua performance più audace e corrosiva, un’autentica sovversione dell’icona che lo aveva reso immortale. Qui, Bogart non è più il cinico affascinante con un cuore d'oro alla Rick Blaine, né il detective disilluso ma integerrimo alla Sam Spade. Dix Steele è una figura lacerata, un uomo tormentato da demoni interiori, un artista la cui genialità è inestricabilmente legata a una furia autodistruttiva. La sua recitazione, fatta di sguardi torbidi e scatti improvvisi, di sorrisi forzati e momenti di agghiacciante lucidità, trasmette un senso di pericolo imminente, di una bomba a orologeria emotiva pronta a esplodere. Un ritratto crudo della mascolinità post-bellica, minata dall'ansia e dalla perdita di controllo.

La sua vicina di casa, in un moto di apparente generosità, gli fornirà un alibi traendolo momentaneamente dai guai, attratta da lui ne diverrà Musa e Nemesi. Laurel Gray, interpretata dalla sublime Gloria Grahame, è un personaggio chiave, ben più complesso della classica femme fatale noir. Lei è la musa che ispira la riaccensione creativa di Dix, ma la sua fragilità e la sua sensibilità la rendono anche la vittima designata della sua crescente paranoia. La Grahame, con la sua voce roca e i suoi occhi malinconici, incarna perfettamente la vulnerabilità e la forza quietamente disperata di una donna intrappolata in una relazione tossica. Non è la tentatrice che porta l'eroe alla rovina, ma lo specchio in cui l'eroe vede riflessa la propria, insopportabile, violenza. La sua trasformazione da innamorata fiduciosa a donna terrorizzata è il barometro della discesa di Dix nella follia.

Davvero indimenticabile la regia di Nicholas Ray che con rapide carrellate alternate a primi piani ossessivi, il regista di Galesville crea una tassonomia iconografica del noir. Ray utilizza la macchina da presa non come un semplice strumento di ripresa, ma come un occhio scrutatore, quasi intrusivo, che esplora le profondità psicologiche dei personaggi. Le carrellate, talvolta frenetiche, a volte lente e inquietanti, seguono la psiche agitata di Dix, mentre i primi piani insistiti rivelano l’angoscia crescente di Laurel. L’uso sapiente del chiaroscuro, dei giochi di luce e ombra negli interni claustrofobici, non serve solo a creare atmosfera, ma a riflettere lo stato mentale dei protagonisti: la penombra come rifugio per la follia, la luce come crudele rivelatrice della verità. Ray riesce a elevare il linguaggio visivo del noir, facendone lo strumento primario per l'analisi della psicopatologia, un elemento che ritroveremo, seppur in contesti diversi, anche in opere successive come il celebre "Gioventù bruciata".

Il film è uno studio molto efficace intorno ad un individuo in bilico su una lama, efficace è anche il mutamento di prospettiva per cui dalla sensazione di intrappolamento di Bogart passiamo alla sensazione di disagio della Grahame. Questo cambio di messa a fuoco narrativa è un colpo di genio, che amplifica il senso di tragedia. Inizialmente, il pubblico è invitato a simpatizzare con Dix, a credere alla sua innocenza, a percepire la sua frustrazione per un sistema giudiziario ingiusto. Ma man mano che la verità del suo carattere si svela attraverso la sua interazione con Laurel, la nostra empatia si sposta. Non è più la paura di essere condannato per un crimine che non ha commesso a dominare, ma la paura di ciò che è capace di fare, la sua violenza intrinseca, la sua incapacità di amare senza distruggere. La lama su cui cammina non è quella della giustizia, ma quella tra la sanità e la follia, tra l’amore e la distruzione.

Come Rick in Casablanca, anche Dixon perde male in Amore, ma qui l’uomo è portato al limite psicologico, producendo un ritratto bruciante di uomo strappato in due. Se Rick sacrifica il suo amore per un bene superiore, con una nobiltà d’animo che lo eleva al mito, Dixon Steele lo fa saltare in aria per la sua stessa autodistruttività. Non c’è redenzione, non c’è speranza. Bogart, in questa performance epocale, smonta l’archetipo dell’eroe romantico a cui ci aveva abituati, rivelando un anti-eroe che è prigioniero delle sue pulsioni più oscure. Il ritratto è bruciante perché mostra la distruzione di un uomo non per mano del destino o di un nemico esterno, ma per l'azione corrosiva delle sue stesse fragilità e violenze interiori, un conflitto che lo dilania con studiata lentezza.

Un tremendo conflitto che attraversa l’animo dello spettatore e lo dilania con studiata lentezza, portandolo infine lì dove Ray lo voleva: non a una catarsi, ma a una profonda, sconfortante melanconia. Il finale, privo di facili risoluzioni o di trionfi morali, è una dichiarazione di intenti potentissima. Non c'è la scoperta del "vero" assassino a portare giustizia, ma solo la tragica realizzazione di un amore irrimediabilmente perduto, infranto dalla violenza interna di Dix e dalla paura di Laurel. È una conclusione amara, che rifiuta la consolazione e la chiusura tipiche del genere, lasciando lo spettatore con un persistente senso di incompiuto, di un’occasione mancata, di una vita rovinata non da un colpo di pistola, ma da un lento, inesorabile soffocamento dell’anima. Il diritto di uccidere si rivela essere, in ultima analisi, il diritto di uccidere l'amore, e con esso, ogni residua speranza.

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