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Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

1970

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Regista

Elio Petri spinge un immenso Volontè ai confini della recitazione ricalcando un personaggio ineffabile, il volto stesso del potere impunito e impunibile. Gian Maria Volontè, con la sua ineguagliabile intensità, non si limita a interpretare un ruolo; lo incarna, lo vive con una fisicità prepotente e una gestualità studiata che ne fanno quasi un burattino grottesco della propria hybris. La sua performance è un tour de force di nevrosi, megalomania e perversione, un ritratto vivido e disturbante di un uomo che è simultaneamente carnefice e vittima del sistema che rappresenta. Questa simbiosi tra attore e personaggio è uno dei pilastri su cui si erge la potenza sconvolgente del film di Petri, che non a caso otterrà la Palma d'Oro a Cannes e l'Oscar come Miglior Film Straniero, consacrandosi come opera capitale del cinema politico italiano.

Un potente commissario di polizia uccide l’amante e semina indizi nella vana speranza di essere arrestato, scoprirà che il suo potere è connaturato alla sua terribile natura. Questa premessa, che di per sé è già un cortocircuito logico e morale, diventa nella mani di Petri un'indagine quasi psicanalitica sulla brama di controllo e sull'impotenza derivante dall'onnipotenza. La ricerca spasmodica della punizione non è tanto un desiderio di redenzione quanto una perversa verifica dei limiti del proprio potere: può il sistema incriminare uno dei suoi pilastri portanti? La risposta, tragicamente ovvia, è un no che risuona come un'eco sinistra. Il suo delitto non è un atto di follia effimera, ma una scientifica, quasi laboratoriale, messa alla prova dell'inviolabilità del suo status, una sorta di esperimento di Heisenberg applicato alla morale e alla giustizia.

Emblematico è il paragone con alcuni personaggi del nostro tempo e come questo film riesca a risultare assolutamente moderno nell’analogia. La sua contemporaneità è disarmante. In un'epoca in cui la percezione pubblica della trasparenza istituzionale è sempre più offuscata, e in cui figure di potere sembrano operare al di là di ogni rendicontazione, la figura del "Dottore" di Petri non appare affatto anacronistica, ma piuttosto una preveggente incarnazione di un male endemico. Il film non è solo una fotografia della repressione statale nell'Italia degli Anni di Piombo – un periodo di forti tensioni sociali e politiche, dove il confine tra "reati comuni" e "reati politici" era manipolato ad arte dal potere costituito – ma una critica universale e atemporale alla corruzione intrinseca e alla tendenza autodifensiva di ogni apparato di potere. La regia di Petri è affilata come un bisturi, e, insieme alla fotografia claustrofobica di Luigi Kuveiller e all'inquietante colonna sonora di Ennio Morricone – un leitmotiv ossessivo e sardonico che sottolinea la follia e la teatralità degli eventi – crea un'atmosfera di paranoia e alienazione che trascende il puro giallo investigativo per sfociare nel dramma psicologico e nella satira sociale più amara.

Il personaggio centrale del film, una sorta di deus ex machina che occupa come un semidio il proscenio, presenta una complessità notevole e offre diverse chiavi di lettura: dal crimine subliminale alla corruzione del potere, dalla perdizione sessuale alla patologia ossessiva e repressa che sfoga nelle sue azioni. La relazione con l'amante Augusta (una magnetica Florinda Bolkan) non è un semplice amplesso adulterino, ma un campo di battaglia dove si gioca la dinamica sadomasochista del controllo e della sottomissione. Il sesso è disfunzionale, intriso di violenza psicologica e fisica, un riflesso delle pulsioni più oscure del Dottore, che egli tenta di purgare (o piuttosto di esibire) attraverso il suo "perfetto" crimine. La sua devianza non è un mero vizio privato, ma diventa una metafora della devianza di un intero sistema, che, come lui, ha bisogno di manifestare la propria forza attraverso l'abuso e la sopraffazione. Petri non si limita a condannare il singolo individuo, ma svela le patologie di un intero corpo statale.

Paradigmatico il fatto che il personaggio principale non abbia un nome ma resti celato dietro un titolo generico “Il Dottore”, quasi a rimarcare la sua inviolabilità e il suo immenso potere che non può essere scalfito neppure dal nudo dato anagrafico. Questa anonimità non è un vezzo stilistico, ma una potente scelta narrativa che universalizza la sua figura. "Il Dottore" non è Tizio o Caio; è il funzionario, l'archetipo dell'autorità, il volto impersonale di uno Stato che si auto-tutela. L'assenza di un nome lo spersonalizza, rendendolo non un uomo ma la funzione stessa, un ingranaggio essenziale di una macchina burocratica e repressiva. In questo, il film riecheggia le atmosfere kafkiane, dove l'individuo si scontra con una burocrazia cieca e tentacolare, ma con la differenza che qui il protagonista è egli stesso l'agente di quell'oppressione, il sistema incarnato.

Il dottore, nel discorso d’insediamento alla questura per la sezione “reati politici”, proclama all’uditorio: “Da oggi assumo la direzione dell’ufficio politico. Voi saprete tutti che io fino a ieri mi sono occupato di assassinii, e con un certo successo. Non è senza significato che abbiano destinato proprio me, in questo momento, alla direzione dell’Ufficio Politico. Ciò è stato deciso poiché tra i reati comuni e i reati politici sempre più si assottigliano le distinzioni, che tendono addirittura a scomparire. Questo scrivetevelo bene nella memoria: sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo; sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale.” Un meraviglioso monologo che porta in nuce tutte le tematiche di quest’opera legate all’esercizio del potere: potere incontrastato, potere decisionale, inviolabilità del potere, soggiacenza totale di chi non detiene il potere. Questo discorso, quasi brechtiano nella sua brutalità e nell'aperta dichiarazione d'intenti, è il cuore pulsante del film, un vero e proprio manifesto ideologico del protagonista e del regime che egli rappresenta. È una dichiarazione di guerra al dissenso, una giustificazione per la repressione e la sorveglianza totalitaria. La lucidità con cui il Dottore articola la fusione tra crimine comune e sovversione politica è agghiacciante, poiché svela la logica distorta di uno Stato che vede ogni deviazione dalla norma come una minaccia alla propria stabilità. Il finale del film, con quella disturbante citazione di Kafka e il Dottore che, nella sua camera da letto, è circondato da tutti coloro che lo dovrebbero giudicare ma che invece lo assolvono tacitamente, sigilla l'ineluttabilità della sua condizione e l'impossibilità di sfuggire all'abbraccio soffocante del potere, un potere che non ha bisogno di punire i suoi agenti più fedeli, poiché essi sono la sua stessa essenza.

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