Intolerance
1916
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Regista
Il primo grande Kolossal della storia del cinema nasce quasi per caso, con un progetto (uno dei tanti in verità, del prolifico D. W. Griffith) ripreso in mano dopo il clamoroso successo di pubblico di Birth of a Nation come strumento per rispondere alle critiche che quel film aveva ricevuto per la sua visione storica distorta. Non si trattava di una semplice polemica passeggera; la glorificazione del Ku Klux Klan e la sua marcata impronta razzista avevano suscitato un’ondata di indignazione che travalicava i confini della critica cinematografica, toccando nervi scoperti della società americana. Fu in questo clima di acceso dibattito che Griffith, forse spinto da un desiderio di redenzione artistica o dalla convinzione di aver subito un’ingiustizia interpretativa, decise di investire ogni risorsa, sia intellettuale che economica, in quella che divenne la sua più audace e rovinosa impresa: un’apologia in celluloide, un monumentale grido contro l'intolleranza. Il padre del cinema moderno si circondò di uno stuolo di sceneggiatori (tra cui Tod Browning, il futuro regista di Freaks), ma soprattutto di migliaia di comparse, architetti e maestranze, per mettere in scena un’autentica epopea attraverso il tempo e la storia. Le cifre erano sbalorditive per l'epoca: un budget che sfiorava i due milioni di dollari, una cifra esorbitante che superava di gran lunga qualsiasi produzione precedente, e set mastodontici, tra cui la ricostruzione della Babilonia antica, di una vastità tale da rimanere leggendaria e visibile per decenni nel paesaggio californiano. Un film di enorme durata per gli standard del cinema muto, circa tre ore e mezza nella sua versione integrale, che sebbene inizialmente acclamato per la sua audacia e innovazione, fu paradossalmente accolto da un clamoroso insuccesso commerciale negli Stati Uniti, portando Griffith alla bancarotta e segnando profondamente la sua carriera successiva.
Si narra la storia di una donna che attraverso varie cadenze storiche viene separata dal marito e dal figlio a causa di pregiudizi culturali e dell’intolleranza sociale. Un viaggio nel Tempo con l'ambizioso tentativo di raccontare la storia dell'umanità attraverso quattro episodi ambientati in epoche diverse: la Babilonia antica, la Giudea ai tempi di Cristo, la Francia del XVI secolo e l'America contemporanea. Ciascun episodio narra di madri separate dai loro figli a causa dell'intolleranza, dimostrando come questa sia una piaga che affligge l'umanità da sempre. La scelta di queste epoche non è casuale, ma intende rappresentare archetipi di oppressione: la caduta della città di Babilonia per mano dei Persiani, qui interpretata come la sconfitta della libertà e della gioia di vivere di fronte al fanatismo religioso; la passione di Cristo, vittima dell’ipocrisia dei farisei e dell’indifferenza delle masse; la notte di San Bartolomeo, emblema della furia settaria e dell'odio religioso che dilania la Francia degli Ugonotti; e, infine, l’episodio contemporaneo, una critica tagliente alla puritana e ipocrita moralità americana, dove la povertà e l’ignoranza si scontrano con la rigida applicazione di leggi moralistiche. Griffith, attraverso un montaggio parallelo e un simbolismo potente, cerca di mostrare come l'intolleranza sia alla radice di molti conflitti e come le conseguenze delle nostre azioni si ripercuotano nel tempo. Il celebre intercutting, o montaggio alternato, che tagliava incessantemente da un’epoca all’altra, non era solo una tecnica narrativa, ma un vero e proprio manifesto stilistico e filosofico. Simboleggiava la ciclicità ineludibile della storia umana, un fiume ininterrotto di azioni e reazioni, dove l'ingiustizia di un'epoca riverbera fatalmente in un'altra. Il leitmotiv della culla che dondola eternamente, evocativo della continuità della vita e della speranza, funge da potente collante visivo e tematico, un ponte tra gli abissi temporali e le diverse manifestazioni di crudeltà umana. Era un'operazione di decostruzione storica e ricostruzione emotiva senza precedenti, che mirava a far sentire allo spettatore l'universalità del messaggio.
Un’opera girata con grande dispendio di energie e risorse, magnifica nelle sue ricostruzioni storiche, con una sceneggiatura flessibile e dinamica, intessuta di intertitoli e di sequenze visive che scavano nelle emozioni come grimaldelli. Le performance degli attori, in particolare quelle di Lillian Gish nell'episodio moderno e di Constance Talmadge nella sequenza babilonese, trascendono la recitazione enfatica del muto, raggiungendo vette di pathos e verità. Il celebre assedio di Babilonia, con le sue centinaia di figuranti, elefanti e imponenti mura in cartapesta, rappresenta l'apice della scenografia del cinema muto, un vero e proprio prodigio ingegneristico e artistico che avrebbe ispirato generazioni di registi, da Cecil B. DeMille a Sergio Leone. Griffith, con la sua maestria nel dirigere le masse e nel catturare la grandezza e la miseria dell'animo umano, elevava il cinema da semplice spettacolo a vera e propria arte monumentale.
Un autentico punto di partenza per la Settima Arte, ma in qualche modo anche di arrivo. Intolerance resta ancora oggi un'opera ambiziosa e innovativa, ma anche piuttosto controversa. Fu un punto di partenza perché stabilì nuovi standard per la narrazione epica, per l'uso del montaggio come strumento di significato e per la concezione del film come veicolo di idee complesse. La sua influenza è innegabile: dalle teorie del montaggio sovietico di Eisenstein e Kuleshov, che vedevano in Griffith un precursore geniale, fino alle grandi produzioni hollywoodiane a venire. Ma fu anche un punto di arrivo, la massima espressione della "grandezza" del cinema muto, il culmine di un'era in cui la narrazione visiva, priva del supporto sonoro, doveva attingere a risorse espressive estreme per comunicare. Le critiche si concentrarono sulla eccessiva complessità della struttura narrativa, con i suoi salti temporali giudicati troppo arditi per lo spettatore medio dell'epoca, e sulla semplificazione di alcuni eventi storici, a volte sacrificati sull'altare della tesi morale del regista. Nonostante le polemiche e il suo sfortunato destino economico, il film lasciò un segno indelebile nella storia del cinema, non solo come lezione di stile e tecnica, ma anche come coraggiosa, seppur imperfetta, riflessione sull'eterno ritorno dell'odio e del pregiudizio. La sua riscoperta e rivalutazione nel corso dei decenni lo hanno elevato al rango di capolavoro, un'opera la cui risonanza intellettuale e artistica continua a ispirare e a far riflettere sulla natura umana e sul potere del cinema di indagarla.
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