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Io ti salverò

1945

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La cinepresa di Alfred Hitchcock non è mai stata un semplice registratore di eventi; è un bisturi, un proiettore onirico, un confessionale. In nessun altro luogo questo è più evidente che in Io ti salverò, un film che non si accontenta di raccontare un mistero, ma ambisce a cartografare l’architettura stessa della psiche, trasformando il set cinematografico in un lettino da psicoanalisi sotto i riflettori di Hollywood. È un’opera sontuosa e febbrile, un’esplorazione del subconscio travestita da thriller romantico, o forse il contrario. Un film che si avventura nel labirinto della mente con la mappa disegnata a quattro mani da Freud e dal produttore David O. Selznick, un connubio tanto improbabile quanto affascinante.

Siamo nel 1945. Il mondo sta uscendo da un trauma collettivo di proporzioni inimmaginabili, e l’America, pur vittoriosa, è ossessionata dalle ferite invisibili, dallo "shell shock" che ha riportato a casa una generazione di uomini. La psicoanalisi, un tempo appannaggio di circoli intellettuali viennesi, è diventata un fenomeno di massa, la nuova, laica confessione per un’epoca secolare. Hitchcock, con il suo fiuto per le ansie correnti, intercetta questa corrente e la traduce in un linguaggio visivo che è puro cinema. Il film si apre in un istituto psichiatrico, la Green Manors, che più che una clinica sembra un tempio modernista dedicato alla ragione. Qui regna la dottoressa Constance Petersen, interpretata da un’Ingrid Bergman la cui bellezza è quasi un’astrazione geometrica, incorniciata da occhiali severi e da una freddezza che è armatura. È l’archetipo della scienziata, colei che osserva le passioni umane al microscopio senza mai esserne contagiata. Fino all’arrivo di Gregory Peck, il nuovo direttore, il dottor Edwardes, un uomo la cui apparente sicurezza nasconde un abisso di terrore.

Il colpo di genio del film è trasformare un’amnesia traumatica in un enigma hitchcockiano per eccellenza: il MacGuffin non è un microfilm o un segreto di stato, ma un’identità perduta, un buco nero nella memoria che risucchia tutto il racconto. L’attrazione tra Constance e il falso dottore (che si rivelerà essere John Ballantyne) non è una semplice parentesi romantica; è il catalizzatore della cura, l’amore come strumento ermeneutico per decifrare i simboli del rimosso. La progressione del loro rapporto ricalca una seduta analitica: la diffidenza iniziale, la resistenza, il transfert (qui, letteralmente, un amore travolgente), e infine la catarsi. Hitchcock visualizza questo processo con una precisione quasi feticista. Quando John ha una crisi alla vista delle linee parallele tracciate da una forchetta sulla tovaglia, la cinepresa non si limita a registrare la sua reazione; diventa la sua percezione distorta, trasformando un oggetto banale in un geroglifico minaccioso. È la grammatica del cinema che si fa sintomatologia psichiatrica.

E poi, naturalmente, c'è la sequenza del sogno. Il grande coup de théâtre non solo del film, ma della carriera di Selznick, che per visualizzare il subconscio di Ballantyne non si accontenta di un art director di studio, ma chiama Salvador Dalí. L’intervento del maestro surrealista è un corpo estraneo magnifico e perturbante, un frammento di avanguardia europea incastonato nel cuore della macchina hollywoodiana. Vediamo un uomo senza volto che gioca a carte in un casinò le cui pareti sono coperte da tende dipinte con occhi giganti; un proprietario del locale dal volto coperto che viene fatto precipitare da un tetto; sette ruote che scendono da una collina. È un’iconografia che attinge a piene mani dal repertorio di Dalí, ma addomesticata per fini narrativi. A differenza del surrealismo puro e sovversivo di un Un Chien Andalou, che mirava a scioccare e liberare l’inconscio senza filtri, qui il sogno è un rebus da risolvere, un cruciverba pittorico i cui indizi (le carte, il numero sette, le ali) condurranno Constance alla soluzione del mistero. È psicoanalisi pop, certo, ma di una potenza visiva che trascende la sua stessa funzione didascalica, un momento in cui il cinema, per un istante, smette di imitare la realtà e tenta di dipingere l’invisibile.

Tuttavia, l’atmosfera onirica e disturbante del film non è relegata solo alla parentesi daliniana. È diffusa in tutta l’opera grazie alla colonna sonora di Miklós Rózsa, che per la prima volta in un film di primo piano utilizza il theremin. Quell’etereo, lamentoso suono elettronico, a metà tra un violino spettrale e una voce umana disincarnata, diventa la voce stessa del trauma di John. È il correlativo oggettivo sonoro della sua angoscia, un ronzio psichico che pervade le scene, rendendo palpabile ciò che non si può dire a parole. Si pensi alla sequenza in cui Constance porta a John un bicchiere di latte. La cinepresa di Hitchcock adotta il punto di vista di John, e il bianco del latte, potenziato dall’illuminazione, diventa accecante, quasi radioattivo. Il suono del theremin si intensifica, e noi spettatori proviamo la stessa, irrazionale fobia del personaggio. Non stiamo guardando un uomo avere paura del bianco; siamo noi ad averne paura. È la quintessenza della suspense hitchcockiana: non l’attesa di un evento, ma la condivisione di uno stato mentale.

Io ti salverò è anche il prodotto di una tensione palpabile tra due visioni del cinema. Da un lato, Selznick, che dopo Via col vento voleva un altro kolossal, questa volta dell'anima, con grandi passioni, scenografie imponenti e una Ingrid Bergman luminosa e romantica. Dall’altro, Hitchcock, più cinico e interessato alla meccanica della colpa e alla perversione dello sguardo. Questa dualità si riflette nella struttura stessa del film: la grandiosità della storia d’amore, quasi da romanzo ottocentesco, si scontra con la fredda, analitica dissezione della patologia. È un film che vuole essere contemporaneamente un saggio sulla mente e una fiaba in cui l'amore, letteralmente, salva. La risoluzione finale, con il dottor Murchison che rivolge la pistola verso di sé (e quindi verso la cinepresa, verso di noi), è un colpo da maestro che unisce i due mondi: è la logica conclusione dell’indagine poliziesca, ma anche la visualizzazione definitiva di un’implosione psichica.

A distanza di decenni, l’accuratezza scientifica della psicoanalisi rappresentata in Io ti salverò può far sorridere. È una versione semplificata, quasi magica, dove un complesso di colpa può essere svelato decifrando un sogno come fosse un’antica pergamena. Ma giudicare il film su questa base sarebbe come criticare un romanzo di Jules Verne per le sue imprecisioni ingegneristiche. Il suo valore non risiede nella sua validità clinica, ma nella sua straordinaria capacità di usare gli strumenti del cinema per creare una metafora potente e duratura della mente umana come un paesaggio misterioso, pieno di simboli nascosti, precipizi e sentieri dimenticati. È un film che, come un sogno, rimane impresso non per la sua logica, ma per la vividezza indelebile delle sue immagini: un rasoio su un lenzuolo bianco, un paio di occhiali che si infrangono, un mare di occhi che ci fissano da una tenda. È la dimostrazione che, a volte, per esplorare le profondità dell’animo umano, il più potente degli strumenti non è il lettino dell’analista, ma lo schermo di un cinema.

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