Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Japón

2003

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Un pugno nello stomaco sferrato con la grazia di un rituale. L'esordio di Carlos Reygadas, Japón, è un'opera che non si limita a essere vista, ma che si insinua sotto la pelle, un'esperienza cinematografica tellurica che scuote le fondamenta stesse dello sguardo dello spettatore. Girato in un 16mm granuloso e poi gonfiato in 35mm, il film possiede una texture che è già una dichiarazione di intenti: una materia ruvida, quasi abrasiva, che rifiuta la levigata e asettica perfezione del digitale per abbracciare una fisicità pittorica. Le immagini, deformate ai bordi da un uso estremo delle lenti anamorfiche, non incorniciano il paesaggio, lo divorano, trasformando i canyon desolati dello stato di Hidalgo in un utero geologico primordiale. Ogni fotogramma sembra un affresco corroso dal tempo, un reperto archeologico di un'umanità al suo stadio più essenziale e brutale.

La premessa è di una semplicità disarmante, quasi archetipica: un uomo, un pittore di cui non sapremo mai il nome, viaggia verso questo luogo dimenticato da Dio con un unico scopo, il suicidio. Cerca il silenzio e la fine, ma trova invece Ascen, un'anziana vedova india che lo accoglie nella sua dimora fatiscente. È l'incontro tra una volontà di morte, cerebrale e nichilista, e una vita ridotta all'osso, scandita da gesti ieratici e da una resilienza che ha la stessa durezza della roccia circostante. Il viaggio del protagonista non è tanto una discesa agli inferi dantesca, quanto un'immersione in una dimensione pre-morale, un mondo che esiste al di là del bene e del male, dove vita e morte sono facce della stessa, indifferente, medaglia cosmica. Se in Dostoevskij l'uomo del sottosuolo si macera nella propria coscienza ipertrofica, il protagonista di Reygadas viene svuotato, scarnificato, costretto a confrontarsi con una realtà che non ha bisogno di giustificazioni intellettuali per esistere.

Il paesaggio, in Japón, cessa di essere sfondo per diventare protagonista assoluto, un'entità viva e pulsante che riecheggia la natura spietata e grandiosa di un Werner Herzog. Ma se nella giungla di Aguirre, furore di Dio c'è una follia febbrile, qui regna una quiete terrificante, un silenzio gravido di suoni animali, di vento, di colpi di tosse. È un universo che ricorda da vicino la frontiera desolata e amorale di Cormac McCarthy, in particolare quella di Meridiano di Sangue, dove la bellezza sublime del creato è inscindibile dalla sua violenza intrinseca. Reygadas filma questo mondo con la pazienza di un naturalista e la visione di un metafisico. La sua macchina da presa, con i suoi movimenti lenti e avvolgenti, non giudica, osserva. Registra il volo di un uccello con la stessa impassibilità con cui ne registra la morte, la maestosità di un cavallo al galoppo e il suo corpo scuoiato.

È impossibile non iscrivere Reygadas, fin da questo folgorante esordio, nella grande tradizione del cinema trascendentale. L'ombra di Andrej Tarkovskij si allunga su ogni inquadratura, nella sacralità conferita agli elementi naturali, nell'uso epifanico della musica (qui lo straziante Cantus in Memory of Benjamin Britten di Arvo Pärt) che irrompe a squarciare il silenzio, e nella ricerca di una spiritualità che non passa attraverso il dogma ma attraverso la materia. Tuttavia, dove Tarkovskij sublima, Reygadas ancora la sua ricerca alla carne, al corpo, alla sua caducità e ai suoi umori. Il suo approccio ricorda anche il rigore di Robert Bresson, soprattutto nell'utilizzo di attori non professionisti, i cui volti e gesti diventano "modelli" portatori di una verità che nessuna recitazione potrebbe replicare. La stessa Ascen, con il suo volto segnato dal tempo come una mappa geografica, possiede la potenza iconica della Giovanna d'Arco di Falconetti nel capolavoro di Dreyer.

Questo ancoraggio alla fisicità del reale culmina in una delle scene più discusse e radicali del cinema del nuovo millennio: l'incontro sessuale tra il giovane protagonista e l'anziana Ascen. Lungi dall'essere un atto erotico o provocatorio, la sequenza è un disperato rituale di passaggio, un'ultima, brutale comunione prima della fine. È un atto che trascende il desiderio per diventare un gesto puramente esistenziale: il corpo giovane e malato che cerca, nel corpo vecchio e prossimo alla morte, non il piacere, ma una traccia di quella forza vitale che ha deciso di rifiutare. Reygadas filma i corpi con una franchezza quasi documentaristica, spogliandoli di ogni idealizzazione. È un'intimità che non ha nulla di confortante; è goffa, difficile, quasi dolorosa, ma in essa si consuma il nucleo tematico del film: la vita, nella sua forma più cruda e biologica, che si riafferma prepotentemente contro l'astratta volontà di annullamento.

Il titolo stesso, Japón, è una chiave di lettura meta-testuale di rara potenza. Non un'indicazione geografica, ma un concetto: il "Paese del Sol Levante". Il protagonista cerca il tramonto definitivo della propria esistenza e trova, invece, una nuova, accecante e terribile alba. L'ironia, tragica e profonda, è che questa riaffermazione della vita non conduce a una redenzione pacificata. Il finale, con il suo incidente improvviso e devastante, è un monito spietato: riabbracciare la vita significa accettarne anche la casualità, la violenza, l'assenza di un disegno provvidenziale. La salvezza, se mai esiste, non è una meta, ma un processo di continua, dolorosa immersione nel caos del mondo.

Con Japón, Carlos Reygadas non ha semplicemente diretto un film, ha scolpito un'esperienza. Ha preso il linguaggio del cinema d'autore europeo e lo ha innestato nel cuore arido e magico del Messico rurale, creando un ibrido di una potenza sconcertante. È un'opera che respinge lo spettatore pigro, che lo costringe a rinegoziare il proprio rapporto con l'immagine, con il tempo e con il corpo. È un cinema che fa male, che sporca, ma che proprio per questo riesce a toccare corde di un'autenticità quasi insostenibile. Un'opera prima che ha la densità e la ferocia di un testamento, il punto zero da cui una delle voci più importanti del cinema contemporaneo ha iniziato a tracciare il suo cammino inimitabile.

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