Ju Dou
1990
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Regista
Un oceano di seta scarlatta inonda lo schermo, un fiume di colore così saturo da sembrare una ferita aperta nel tessuto del reale. Le immense pezze di cotone, appese a seccare come stendardi di un impero sconfitto, ondeggiano nel cortile della tintoria di Yang Jin-shan, un microcosmo claustrofobico che Zhang Yimou trasforma in un palcoscenico per una tragedia di proporzioni sofoclee. In Ju Dou, il colore non è un semplice orpello estetico; è il sangue, la rabbia, la passione repressa e infine la distruzione. È il correlativo oggettivo, quasi montaliano, di un dramma che pulsa con la violenza primordiale di un cuore intrappolato.
Siamo nella Cina rurale degli anni '20, ma potremmo trovarci in qualsiasi luogo e tempo in cui il peso della tradizione si fa macigno sull'individuo. La giovane e bellissima Ju Dou (una Gong Li la cui espressività trascende la necessità stessa del dialogo) viene venduta come moglie al vecchio e sadico proprietario della tintoria. Jin-shan è impotente, e la sua frustrazione si traduce in torture notturne, abusi rituali che echeggiano tra le pareti di legno e le vasche di tintura. A osservare, impotente e consumato dalla vergogna, è il nipote adottivo dell'uomo, Tian-qing. Un personaggio la cui debolezza è quasi più colpevole della crudeltà dello zio; un Amleto rurale, paralizzato non dal dubbio esistenziale ma dal terrore atavico del patriarcato.
La cinepresa di Zhang Yimou e Lü Yue si fa strumento di un voyeurismo quasi ontologico. Spia da fessure nel legno, da buchi nel pavimento, incorniciando i corpi e i volti in spazi ristretti, sottolineando una totale assenza di privacy che non è solo fisica, ma soprattutto sociale. La comunità, rappresentata dal consiglio degli anziani del clan, è un occhio panottico che vigila sulla perpetuazione delle norme. È in questo contesto di sorveglianza e prigionia che l'inevitabile accade. L'attrazione tra Ju Dou e Tian-qing esplode in una passione clandestina, consumata tra le balle di stoffa, in un amplesso che è tanto un atto d'amore quanto una disperata ribellione.
Qui, il genio di Zhang Yimou si fonde con una sensibilità che richiama alla mente i melodrammi fiammeggianti di Douglas Sirk. Come in Secondo amore o Come le foglie al vento, il Technicolor non è realistico, ma psicologico. Il rosso carminio della tintura in cui Ju Dou cade accidentalmente, macchiando il suo corpo come la lettera scarlatta di Hester Prynne, è il sigillo visibile di un peccato che la società non può perdonare. Il giallo zafferano, così vibrante e vitale, diventa il colore della speranza proibita, della vita che nasce da un atto illecito. Zhang usa la tavolozza cromatica come un Fauvista, distorcendo la realtà per esprimerne l'essenza emotiva, costruendo una prigione di bellezza abbagliante da cui i suoi protagonisti non possono fuggire. Le lunghe strisce di tessuto tinto non sono che le sbarre colorate della loro cella.
Dalla loro unione nasce un figlio, Tian-bai. In un perverso scherzo del destino, il vecchio Jin-shan, gaudente e ignaro, lo reclama come suo, assicurando la discendenza. Il film, a questo punto, compie una torsione narrativa che lo allontana dal semplice dramma adultero per proiettarlo nel territorio della tragedia greca e del naturalismo alla Zola. Tian-bai non è il frutto felice di un amore proibito, ma l'incarnazione stessa del sistema corrotto che lo ha generato. Cresciuto chiamando "padre" il vecchio torturatore e "fratello" il suo vero padre biologico, il bambino diventa un piccolo mostro di moralità confuciana, un custode involontario e spietato dello status quo. Il suo sguardo, prima innocente, si fa giudicante, il suo silenzio un'accusa costante. È il prodotto di un ambiente malato, un fiore velenoso nato da un seme di repressione, la cui lealtà va alla struttura patriarcale che gli ha dato un nome e un'identità, per quanto posticcia.
La parabola di Ju Dou è una critica feroce, seppur allegorica, a un sistema feudale le cui vestigia, come sapevano bene i registi della Quinta Generazione Cinese, non erano state del tutto sradicate neppure dalla Rivoluzione Culturale. Girato sul finire degli anni '80, in un periodo di tensioni post-Tiananmen, il film fu inizialmente bandito in patria, proprio perché la sua critica a un passato opprimente risuonava con troppa forza nel presente. La storia di Ju Dou e Tian-qing, incapaci di vivere il loro amore anche dopo la morte grottesca del tiranno (che annega proprio in una vasca di tintura), è la metafora di un'intera nazione intrappolata tra il desiderio di libertà individuale e le catene di un'ideologia collettivista e autoritaria.
Il film raggiunge il suo apice in un crescendo di determinismo tragico. Tian-qing, l'eterno pusillanime, non riesce mai a reclamare il suo ruolo di padre e marito. La sua inerzia è la vera condanna per Ju Dou. La tragedia si compie quando Tian-bai, ormai un ragazzo, diventa l'agente del fato. In una sequenza agghiacciante, causa la morte del suo vero padre, "colpevole" di aver tentato di salvare il cadavere del "padre" putativo. È il trionfo definitivo della legge del clan sulla legge del sangue e del cuore. La prole, nata dalla ribellione, si fa esecutore della reazione. È un ribaltamento edipico desolante, dove il figlio non uccide il padre per possedere la madre, ma per difendere l'ordine simbolico del "nonno", del patriarca.
La risposta finale di Ju Dou è un atto di grandezza nichilista. Di fronte al crollo di ogni speranza, con il suo amore distrutto e il figlio trasformato in un estraneo custode delle ceneri, compie l'unico gesto di libertà che le è rimasto: la distruzione. Dà fuoco alla tintoria, a quel mondo di colori magnifici e crudeli, in un'apocalisse purificatrice. Le fiamme che divorano i teli scarlatti sono l'urlo finale, disperato e sublime, di un'anima che sceglie l'annientamento piuttosto che la sottomissione. È un finale che non offre catarsi né redenzione, ma solo la desolata bellezza di una pira funeraria.
Ju Dou non è semplicemente un film sull'adulterio o sulla Cina rurale. È una favola cromatica sulla natura del potere, un'indagine spietata sulla ciclicità della violenza e sulla capacità dei sistemi oppressivi di perpetuarsi attraverso le loro stesse vittime. Gong Li offre una performance che è una sinfonia di sguardi, un trattato sulla sofferenza e la resilienza femminile scritto sul suo volto. Zhang Yimou, al suo terzo lungometraggio, dimostrava già una maturità registica sbalorditiva, orchestrando un melodramma da camera con l'ineluttabilità di un'epica universale, e macchiando per sempre la storia del cinema con la bellezza terribile del suo rosso indimenticabile. Un colore che, come il peccato e il dolore, non si può lavare via.
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