Killer of Sheep
1978
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Regista
Un blues suonato per immagini, un poema intessuto con i frammenti di vite che la Storia ha relegato ai margini della propria narrazione. Vedere Killer of Sheep di Charles Burnett è un'esperienza che trascende la fruizione cinematografica per farsi atto di testimonianza quasi etnografica, ma trasfigurata da una grazia lirica che lo sottrae a ogni tentativo di classificazione sociologica. L'opera, partorita come tesi di laurea alla UCLA nel 1978, non racconta una storia nel senso aristotelico del termine; piuttosto, evoca uno stato dell'anima, una condizione esistenziale. È un film rapsodico, una successione di quadri viventi che, come i racconti di Dubliners di James Joyce, costruiscono un mosaico di paralisi e di fugaci, disperatissime epifanie.
La pellicola ci immerge nel quotidiano di Stan, un uomo che lavora in un mattatoio di Watts, a Los Angeles. Il suo titolo, "killer di pecore", è una condanna letterale e metaforica. Ogni giorno, Stan assiste e partecipa a una catena di montaggio della morte, un lavoro che lo svuota, lo anestetizza, rendendolo un fantasma nella sua stessa casa, incapace di connettersi con la moglie o di rispondere al calore dei figli. La sua insonnia, la sua depressione silente, non è un dramma psicologico individuale, ma l'eco di un'alienazione sistemica, la cicatrice spirituale lasciata da un lavoro che uccide l'anima insieme ai corpi degli animali. Burnett, con un'economia di mezzi che è già una dichiarazione estetica, filma questa stanchezza esistenziale non con dialoghi esplicativi, ma con la fisicità prosciugata del suo protagonista, con i silenzi pesanti che occupano lo spazio tra le parole.
È quasi didattico, ma inevitabile, convocare il fantasma del Neorealismo italiano. L'uso di attori non professionisti, le location reali che diventano personaggio, l'attenzione per i dettagli della vita della classe operaia: tutto sembra urlare De Sica e Rossellini. Eppure, l'analogia, per quanto calzante, è incompleta. Se Ladri di biciclette era un dramma lineare teso verso una risoluzione (o la sua assenza), Killer of Sheep è volutamente ellittico e frammentario. Burnett non sta costruendo un arco narrativo, ma dipingendo un paesaggio emotivo. Il suo è un neorealismo filtrato attraverso la sensibilità del free jazz, dove l'improvvisazione e la ripetizione di temi creano un ritmo ipnotico, una pulsazione vitale che scorre sotto la superficie della disperazione. Il cinema di Burnett si colloca in un lignaggio che passa per Cassavetes nella sua ricerca di una verità emotiva cruda, ma se ne distacca per un lirismo visivo che ricorda più il realismo poetico francese di Jean Vigo.
Ogni sequenza è un cortometraggio a sé, un momento colto e restituito con una purezza formale che sbalordisce. I bambini che giocano sui tetti, saltando da un edificio all'altro come angeli urbani in un cielo di polvere e cemento, non sono semplicemente "bambini che giocano": sono la visione di un'innocenza precaria, una libertà acrobatica che sfida la gravità di un'esistenza già segnata. La scena in cui Stan e sua moglie ballano lentamente in salotto sulla note struggenti di "This Bitter Earth" di Dinah Washington è uno dei momenti più alti e commoventi della storia del cinema indipendente. In quel singolo, goffo e tenerissimo abbraccio, c'è un intero universo di amore non detto, di desiderio di connessione, di una bellezza che fiorisce per pochi istanti tra le crepe del quotidiano. La colonna sonora, un collage sublime di blues, soul e gospel, non funge da mero commento, ma da controcanto dialettico, da coro greco che dà voce all'anima dei personaggi, elevando le loro piccole vicissitudini a un dramma universale.
È fondamentale inserire Killer of Sheep nel suo contesto. Girato negli anni '70, in piena era Blaxploitation, il film di Burnett rappresenta un atto di resistenza culturale. Mentre il cinema mainstream proponeva eroi neri esagerati in trame di vendetta e azione, la L.A. Rebellion – il collettivo di cineasti afroamericani formatisi alla UCLA di cui Burnett fu figura di spicco – cercava un nuovo linguaggio, un cinema che riflettesse l'autenticità e la complessità della Black experience senza stereotipi. Killer of Sheep è l'assunto programmatico di questo movimento: un cinema povero di mezzi ma ricco di umanità, che rifiuta la spettacolarizzazione per abbracciare l'osservazione, che preferisce la poesia del dettaglio al fragore della trama.
La storia produttiva del film è essa stessa una metafora della sua essenza. Girato nel corso di vari weekend con un budget irrisorio (si parla di meno di 10.000 dollari), il film rimase per decenni un capolavoro fantasma, visibile solo in rari circoli accademici. I costi proibitivi per liberare i diritti delle numerose canzoni presenti nella colonna sonora ne impedirono una distribuzione ufficiale fino al 2007. Questa lunga incubazione, questa esistenza quasi clandestina, ha contribuito a creare un'aura mitica attorno all'opera, trasformandola in un testo sacro per cinefili e studiosi. La sua "resurrezione" ha rivelato al mondo non un pezzo da museo, ma un'opera di una modernità sconcertante, la cui influenza è visibile in cineasti come Spike Lee, Barry Jenkins o persino David Gordon Green del suo primo periodo (George Washington sembra un discendente diretto dei bambini di Burnett).
In una delle scene più emblematiche e surreali, Stan e un amico tentano di trasportare un motore d'auto, ma lo sforzo si risolve in un fallimento tragicomico. L'oggetto, pesante e ingombrante, cade, si rompe, diventa un simbolo di tutti i tentativi di progresso, di tutti i sogni di fuga che si infrangono contro una realtà implacabile. Non c'è catarsi in Killer of Sheep, non c'è una via d'uscita facile. Burnett non offre soluzioni, perché sa che non ce ne sono di semplici. Il suo sguardo non è pietistico né giudicante; è uno sguardo di profonda, dolorosa empatia. Ogni fotogramma, che sembra rubato alla realtà, possiede la composizione rigorosa e la bellezza malinconica di una fotografia di Roy DeCarava o Gordon Parks. È la cronaca di una stasi, ma una stasi brulicante di vita, di risate improvvise, di gesti di tenerezza, di una resilienza che non si manifesta in atti eroici, ma nella semplice, ostinata volontà di arrivare al giorno dopo. Un capolavoro che non ha bisogno di urlare per farsi sentire, ma che sussurra verità profonde sull'America, sul lavoro, sulla famiglia e sulla ricerca incessante di un momento di grazia in una terra amara.
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