Kin-dza-dza!
1986
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Regista
Il vero brivido del cinefilo non risiede nel confermare i capolavori universalmente riconosciuti; quello è un dovere. Il brivido, la vera estasi, sta nell'escavazione: nel trovare un artefatto come Kin-dza-dza!, un film che sembra trasmesso da un universo parallelo, una gemma così culturalmente specifica da diventare universalmente astratta. La storia del cinema è un cimitero di perle sconosciute, opere che, a causa della geografia politica o della pura stranezza, non sono mai entrate nel canone occidentale. Kin-dza-dza! è forse il più grande di questi tesori sepolti. È una commedia di fantascienza sovietica del 1986 che sembra un incrocio tra Mad Max 2, un dramma di Samuel Beckett e una puntata perduta di Monty Python, il tutto shakerato e ambientato nel deserto del Karakum con i resti di una fabbrica di trattori. È la satira più acida e nichilista del tardo periodo sovietico, mascherata da avventura picaresca.
Il regista Georgiy Daneliya, fino a quel momento noto per le sue "commedie tristi" sulla vita sovietica, si lancia in un territorio completamente nuovo. La premessa è di una semplicità disarmante: a Mosca, l'architetto Vladimir Mashkov (Stanislav Lyubshin), un "Proarab" (capocantiere) della classe media, e il giovane studente Gedevan (Levan Gabriadze), detto "Skripach" (il Violinista), incontrano un uomo scalzo che sostiene di essere un alieno. Per errore, attivano il suo dispositivo di teletrasporto. Un istante dopo, sono sul pianeta Plyuk, nella galassia Kin-dza-dza. Il film stabilisce immediatamente la sua estetica anti-spettacolare. Plyuk non è un mondo di meraviglie; è una discarica. È un deserto infinito e monocromatico, disseminato di rottami arrugginiti. La "tecnologia" è junkpunk nel senso più letterale: i "pepelats" (le astronavi) sono barili volanti tenuti insieme da bulloni e sporcizia. È l'esatto opposto della fantascienza pulita di Star Trek o di quella epica di Star Wars. È un futuro (o un presente alieno) che è già esausto, un universo che ha esaurito le risorse e ora funziona solo per inerzia.
È in questo deserto che i due sovietici incontrano i nativi, Uef (Yevgeny Leonov) e Bi (Yuriy Yakovlev), due artisti itineranti truffaldini. È attraverso di loro che il film svela il suo genio satirico. La società di Plyuk è l'allegoria più perfetta e minimalista della gerarchia umana. Ci sono due caste, i Chatlaniani e i Patsak, e la distinzione è determinata da un piccolo dispositivo (il "visator"). La gerarchia sociale è tutto, e si manifesta visivamente nel colore dei pantaloni: i pantaloni gialli sono il simbolo del potere assoluto. L'intera interazione sociale è governata da rituali assurdi: i Patsak devono indossare un campanello al naso e, in presenza di un Chatlaniano (specialmente uno con pantaloni gialli), devono accovacciarsi e dire "Ku!". La lingua stessa è collassata: quasi ogni concetto—saluti, insulti, piacere, disprezzo—è espresso dalla parola "Ku". L'unica parola tabù, un'oscenità indicibile, è "Kyu".
Kin-dza-dza! è una critica spietata di un sistema, quello sovietico, che si stava sgretolando sotto il peso della sua stessa burocrazia, della sua corruzione e della sua ossessione per lo status. Ma la sua satira è così pura che si applica a qualsiasi società. Il motore dell'economia di Plyuk è il "Ketsé"—i fiammiferi di legno. Per gli alieni, un fiammifero sovietico è una ricchezza incalcolabile, un feticcio di valore assoluto per il quale sono disposti a mentire, tradire e uccidere. Il film riduce l'intero sistema economico capitalista e comunista al suo nucleo assurdo: un accordo collettivo per attribuire un valore immenso a un oggetto intrinsecamente inutile. Mashkov e Gedevan, armati di una scatola di fiammiferi, diventano involontariamente gli uomini più ricchi del pianeta, ma scoprono che la ricchezza non li salva dalla stupidità del sistema.
Girato nel 1986, all'alba della Perestrojka, il film cattura perfettamente lo zeitgeist di un impero sull'orlo del collasso. C'è un senso di stanchezza terminale in ogni inquadratura. I personaggi non sono malvagi; sono patetici, stanchi, opportunisti. Il loro unico obiettivo è sopravvivere. Eppure, Daneliya riesce a infondere in questo deserto di nichilismo un umorismo nero e un briciolo di umanità. L'architetto sovietico, con la sua rigida morale da apparatchik, è costretto a confrontarsi con un mondo che è la versione da incubo del suo: un luogo dove le regole sono tutto, anche se sono prive di senso. Kin-dza-dza! è un capolavoro perché utilizza l'estetica più povera possibile per veicolare le idee più ricche. È una di quelle perle rare che dimostra come il cinema, anche quando è fatto di polvere e ruggine, possa essere la forma d'arte più acuta per diagnosticare la follia collettiva della nostra specie.
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