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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Kinski, il mio nemico più caro

1999

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Il cinema è costellato di grandi collaborazioni, di simbiosi artistiche che hanno definito epoche e stili. Ma quella tra Werner Herzog e Klaus Kinski trascende la collaborazione ed entra nel regno della patologia, del patto faustiano, di una possessione reciproca durata cinque film che hanno segnato a fuoco l'immaginario del Nuovo Cinema Tedesco. Kinski, il mio nemico più caro è il tentativo del sopravvissuto di spiegare la tempesta. È Werner Herzog, otto anni dopo la morte del suo attore-feticcio, il suo "nemico più caro", che ritorna sui luoghi del delitto — il Perù, la giungla amazzonica, gli appartamenti fatiscenti di Berlino — per evocare il fantasma. Non lo fa per placarlo, ma per capirlo, e per spiegare a noi perché fosse necessario sopportare l'uragano.

Herzog è spietato, ma onesto, nel costruire il suo soggetto. Attraverso filmati di repertorio (molti inediti, girati da Herzog stesso sul set, come un etologo che studia un predatore alfa), ci viene restituita l'immagine di Kinski non come attore, ma come medium di una furia primordiale, un "elementale" del caos. L'ormai leggendaria sequenza del monologo Gesù Cristo Salvatore, dove un Kinski indemoniato, che si identifica con il Messia, arringa e insulta un pubblico studentesco ammutolito, non è presentata come un aneddoto bizzarro; è la chiave di lettura. Kinski non interpretava la rabbia; era la rabbia, un canale aperto sull'isteria. Herzog, con la sua voce calma, ipnotica, quasi funebre (l'unica arma che poteva contrastare quell'uragano), ci spiega che il suo lavoro di regista non era dirigere Kinski. Era incanalarlo. Era il parafulmine che attirava l'elettricità di Kinski e la dirigeva verso l'obiettivo della macchina da presa, sperando di non rimanere carbonizzato nel processo.

Il documentario attinge a piene mani dai cinque film che hanno definito la loro unione: Aguirre, furore di Dio, Nosferatu, il principe della notte, Woyzeck, Fitzcarraldo e Cobra Verde. Herzog ci costringe a rileggere quelle performance—che sono tra le più grandi della storia del cinema—alla luce di questa nuova consapevolezza. L'ira di Lope de Aguirre, lo sguardo vuoto e sofferente di Woyzeck, la follia titanica di Fitzcarraldo: non erano recite. Erano documentazioni. Herzog ha avuto il genio (e l'incoscienza) di mettere un uomo sull'orlo di un collasso nervoso permanente al centro di imprese produttive che erano esse stesse sull'orlo del collasso. La tensione che vediamo sullo schermo non è fittizia. È la tensione reale tra il regista, l'attore e una giungla che voleva ucciderli entrambi. Il documentario ci conferma quello che avevamo sempre sospettato: per portare una nave su per una montagna in Fitzcarraldo, serviva un folle (Herzog) che la sognasse, e un altro folle (Kinski) che la incarnasse.

Kinski, il mio nemico più caro è anche un magistrale, e necessario, atto di auto-mitologia. Herzog, presentandosi nell'appartamento fatiscente che condivise con Kinski all'inizio della loro carriera, o passeggiando tra le rovine dei set amazzonici, non è un semplice narratore. È il sopravvissuto, l'eroe omerico tornato da Itaca che racconta di Polifemo. Gli aneddoti, ormai celebri, sulla sua minaccia di sparare a Kinski (e poi a se stesso) se avesse abbandonato il set di Aguirre, o sui piani (apparentemente seri) degli indigeni del set di Fitzcarraldo di uccidere Kinski perché era un peso insopportabile, non sono solo "dietro le quinte". Sono la costruzione della leggenda di Herzog: il regista come conquistador, l'artista come mistico razionale che è disposto a tutto, persino all'omicidio-suicidio, in nome della "verità estatica" (l'Ekstatische Wahrheit) che solo il cinema può catturare. Il film è la sua versione dei fatti, la sua giustificazione.

Il titolo originale, Mein liebster Feind (letteralmente "Il mio più caro nemico", dove "Feind" ha un'assonanza quasi demoniaca), cattura perfettamente questo paradosso. Herzog non fa sconti alla natura mostruosa di Kinski, ai suoi abusi, alla sua tirannia sul set (le testimonianze delle co-protagoniste Eva Mattes e Claudia Cardinale sono agghiaccianti e necessarie). Kinski era un despota, un egocentrico patologico, un "parassita" (come lo definisce Herzog). Eppure, il documentario è, in fondo, una lettera d'amore. È il riconoscimento che senza Kinski, l'universo cinematografico di Herzog sarebbe stato privo del suo sole nero, della sua stella più instabile e brillante. L'indimenticabile sequenza finale, in cui Herzog ci mostra un filmato inedito di Kinski nella giungla, che gioca teneramente, quasi dolcemente, con una farfalla, è il colpo di grazia emotivo. È Herzog che ci dice: "Vedete? C'era anche questo. C'era un'innocenza fragile dentro il mostro". È un epitaffio complesso, un saggio sulla natura duale del genio, e la cronaca definitiva di una delle battaglie più pericolose e fruttuose della storia dell'arte.

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