La bella scontrosa
1991
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Regista
Il cinema, nella sua essenza, è un'arte del movimento e del tempo condensato. Montaggio, ellissi, accelerazioni: tutta la sua grammatica è costruita per comprimere ore, giorni, vite in una manciata di minuti significanti. Jacques Rivette, con la protervia di un monaco eretico, prende questo assunto e lo fa a pezzi. La bella scontrosa non è un film sul tempo compresso, ma sul tempo dilatato, vissuto, sofferto. È un'opera che non racconta la pittura, ma che diventa l'atto stesso del dipingere, con tutta la sua estenuante, frustrante, a tratti insostenibile, durata. Per quattro ore, Rivette ci rinchiude in un atelier nel sud della Francia e ci costringe a osservare non il prodotto finito, ma il processo, quel magma incandescente di esitazione e folgorazione che chiamiamo creazione artistica.
Il punto di partenza è un racconto seminale di Honoré de Balzac, "Il capolavoro sconosciuto", un testo che è quasi un talismano per ogni artista che abbia mai dubitato del proprio talento di fronte all'assoluto. Ma se Balzac si concentrava sulla follia finale del pittore Frenhofer, che nasconde la sua opera perfetta dietro un caos di colore incomprensibile, Rivette sposta il baricentro. Il suo Frenhofer, incarnato da un Michel Piccoli tellurico e monumentale, non è un pazzo visionario, ma un artigiano stanco, un dio in esilio che ha perso la fede nel proprio potere demiurgico. Il suo capolavoro sconosciuto, "La Belle Noiseuse", è un progetto abbandonato da dieci anni, un fantasma che infesta la sua casa e il suo matrimonio con Liz (una Jane Birkin la cui fragilità è intessuta di una forza spettrale, quella della musa sopravvissuta alla propria immagine). L'arrivo del giovane pittore Nicolas e della sua compagna, Marianne (Emmanuelle Béart), è la pietra che smuove le acque stagnanti. Frenhofer vede in Marianne non solo un corpo, ma la possibilità di una resurrezione. Le chiede di posare per lui, per finire quel quadro.
Da qui, il film abbandona quasi ogni parvenza di trama tradizionale per trasformarsi in un rituale. La macchina da presa di Rivette, paziente e implacabile, si fissa sulle mani dell'artista (che non sono quelle di Piccoli, ma del pittore Bernard Dufour, in un gesto di onestà intellettuale quasi documentaristica), sul carboncino che gratta la tela, sulle macchie di colore, sul silenzio denso e quasi solido dello studio. Il sonoro è un capolavoro di minimalismo espressionista: non c'è musica, solo i suoni del lavoro. Il raschiare della matita, il fruscio dei pennelli, il cigolio del pavimento, i sospiri. Sono i suoni della lotta, di una battaglia combattuta tra l'inerzia della materia e la volontà della forma. In questo, La bella scontrosa è forse il più grande film mai realizzato sul lavoro fisico dell'arte, spogliato di ogni romanticismo à la Brama di vivere. Qui non c'è l'estasi del genio, ma la fatica, la noia, il sudore dell'operaio.
Al centro di questo duello c'è il corpo di Emmanuelle Béart. La sua nudità, esposta per una durata che sfida le convenzioni del cinema commerciale, trascende rapidamente la dimensione erotica per diventare qualcos'altro. È un campo di battaglia. Le contorsioni innaturali che Frenhofer le impone non sono pose, ma interrogazioni sulla carne, tentativi di scardinare la forma per arrivare a una verità più profonda. Marianne non è un oggetto passivo, una "odalisca" di Ingres sottomessa allo sguardo maschile. All'inizio è recalcitrante, poi spaventata, ma infine diventa parte attiva del processo. Il suo corpo non è solo guardato, ma agisce. Sfida il pittore, lo provoca, si offre e si nega in un gioco di potere psicologico asfissiante che ricorda le dinamiche claustrofobiche di un dramma di Bergman o Strindberg, combattuto però con linee e colori anziché con le parole. La sua nudità diventa un'armatura, una dichiarazione di esistenza che si oppone al tentativo di Frenhofer di dissolverla in un'idea, in un'immagine.
Rivette, da sempre ossessionato dal confine labile tra finzione e realtà, tra prova teatrale e vita (si pensi al suo monumentale e quasi introvabile Out 1), qui porta questa indagine al suo punto più radicale. Le lunghe sequenze di pittura non sono "recitate", sono reali. Assistiamo alla nascita di un'opera d'arte in tempo reale, e questa scelta estetica ha un peso filosofico enorme. Ci costringe a riconsiderare la nostra posizione di spettatori. Non siamo più consumatori passivi di una storia, ma testimoni di un evento. La durata non è autocompiacimento, ma uno strumento per allineare il nostro tempo a quello della creazione. Dopo la prima ora, si smette di "guardare un film" e si inizia a "vivere un'esperienza". È un cinema che esige pazienza, che quasi flirta con la noia per portarci oltre, in uno stato di percezione alterata, quasi ipnotica. È lo stesso principio che Tarkovskij applicava alla sua idea di "scolpire il tempo", ma se il russo cercava la trascendenza spirituale, Rivette cerca l'immanenza assoluta del gesto.
Il film è anche una riflessione meta-cinematografica di una profondità abissale. Frenhofer è Rivette, un autore della Nouvelle Vague che, all'inizio degli anni '90, si confronta con la propria eredità, con i propri "capolavori sconosciuti". Lo studio del pittore è un set cinematografico. La tela è lo schermo. La lotta per catturare la "verità" di Marianne è la lotta del regista per catturare la vita attraverso l'artificio della messa in scena. La crisi di Frenhofer, che a un certo punto distrugge un disegno perché "non è quello", è la crisi di ogni artista che sente lo scarto incolmabile tra la visione interiore e la sua realizzazione materiale. In questo senso, La bella scontrosa dialoga segretamente con un altro capolavoro sulla crisi della rappresentazione, Blow-Up di Antonioni. Ma se per Antonioni la fotografia ingrandita rivelava un vuoto, un'assenza di significato, per Rivette il processo pittorico, per quanto doloroso, rivela una pienezza, una verità che risiede non nel risultato, ma nello sforzo stesso.
La conclusione del film è un colpo di genio che ribalta le premesse di Balzac. Non sveleremo il destino del quadro, ma basti dire che Rivette suggerisce che il vero capolavoro non è l'oggetto finito, appeso a una parete e consegnato al giudizio della storia. Il vero capolavoro è il processo, l'interazione umana, il sangue e le lacrime versate in quella stanza. È l'esperienza condivisa, quella trasformazione che ha toccato il pittore, la modella, la moglie e persino il giovane spettatore Nicolas. È un'idea profondamente anti-monumentale e anti-feticista dell'arte. L'opera è la vita che si è consumata per crearla.
Vedere La bella scontrosa è un atto di dedizione. È un film che non viene incontro allo spettatore, ma che chiede allo spettatore di andare verso di lui, di abbandonare le proprie abitudini percettive e di arrendersi al suo flusso lento e inesorabile. È un'esperienza che può respingere, ma che, se accettata, ricompensa con una comprensione più profonda non solo dell'arte, ma del tempo, del corpo e della natura stessa dello sguardo. È un'opera che, come il dipinto che le dà il titolo, nasconde sotto la sua superficie apparentemente statica un tumulto di vita, di lotta e di bellezza straziante. Un'immersione totale e indimenticabile nel cuore pulsante dell'atto creativo.
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