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La doppia vita di Veronica

1991

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Un'eco senza sorgente, una melodia sentita in sogno, un dolore fantasma per un arto mai perduto. La visione de La doppia vita di Veronica di Krzysztof Kieślowski è un'immersione in questo reame dell'ineffabile, un'esperienza cinematografica che si colloca in quella terra di nessuno tra la poesia lirica e l'indagine filosofica, lasciando lo spettatore con più domande che risposte, e con la vertiginosa sensazione di aver intravisto una frattura nel tessuto del reale. Il film, uscito nel 1991, è un portale, un punto di svolta tanto per il suo autore quanto per il cinema europeo, un'opera che abbandona la robusta architettura morale del Decalogo per avventurarsi nel territorio etereo e impalpabile dell'anima, del caso e delle connessioni invisibili.

La premessa è di una semplicità disarmante, quasi borgesiana nella sua essenzialità. Esistono due donne, fisicamente identiche, inconsapevoli l'una dell'altra. Weronika vive a Cracovia, è una cantante dal talento cristallino e da un cuore fragile; Véronique vive a Parigi, è un'insegnante di musica. Non sono sorelle, non sono parenti. Sono, semplicemente, un duplicato, una risonanza, un'equazione spirituale divisa tra due continenti. Kieślowski non si preoccupa di spiegare questo fenomeno con la logica della narrazione convenzionale. Rifiuta la spiegazione come un artigiano rifiuterebbe un materiale scadente. La sua indagine non è poliziesca, ma ontologica. Il legame tra le due donne è un postulato, un assioma mistico su cui si costruisce un intero edificio di sensazioni, premonizioni e scelte mancate.

Il genio di Kieślowski, qui in stato di grazia assoluta, sta nel tradurre questo concetto astratto in un linguaggio puramente cinematografico. Il film è un trionfo della sinestesia. La fotografia di Sławomir Idziak, con i suoi celebri filtri dorati e verdastri, non si limita a colorare l'immagine; essa dipinge lo stato d'animo, trasforma la realtà in un ricordo sognato, evocando la luce calda e sacrale di un Vermeer intrappolato in un'epoca di incertezze. Ogni riflesso su una superficie di vetro, ogni raggio di luce che filtra attraverso una biglia di cristallo, diventa un portale tra i due mondi, un suggerimento visivo della loro speculare esistenza. La colonna sonora di Zbigniew Preisner, con le musiche attribuite al compositore fittizio Van den Budenmayer (un brillante tocco meta-narrativo che Kieślowski riprenderà nella trilogia dei Colori), non è un mero accompagnamento. È la voce dell'anima condivisa di Weronika e Véronique, un canto sublime e malinconico che una esegue fino a morirne e l'altra sente istintivamente di dover abbandonare per sopravvivere. La musica diventa personaggio, destino, presagio.

Il film si situa in un momento storico cruciale. Siamo nel 1991, il Muro di Berlino è crollato da poco, il blocco sovietico si è dissolto. L'Europa si sta lentamente, faticosamente ricongiungendo. In questo contesto, la dualità tra la polacca Weronika e la francese Véronique assume una potente valenza allegorica. Non è solo la storia di due individui, ma il poema di un continente diviso che inizia a percepire la propria altra metà, a sentire le vibrazioni di un'identità comune a lungo repressa. La scena in cui Weronika, durante una manifestazione a Cracovia, intravede per un fugace istante Véronique su un autobus turistico è emblematica. È un incontro mancato, uno sguardo attraverso una cortina – non più di ferro, ma di vetro e di caso – che simboleggia l'incontro possibile, e ancora incerto, tra l'Est e l'Ovest. Kieślowski non fa politica, ma cattura lo zeitgeist spirituale di un'epoca, la speranza e la malinconia di una riunificazione che è anche una perdita, la scoperta di un "doppio" che porta con sé la consapevolezza di una vita non vissuta.

Irène Jacob, in una delle interpretazioni più luminose e commoventi della storia del cinema, non si limita a interpretare due ruoli. Compie un miracolo di sottrazione, incarnando due possibilità della stessa essenza. La sua Weronika è pura passione, un impeto artistico che la consuma letteralmente; la sua Véronique è più cauta, introspettiva, guidata da un'inspiegabile malinconia e da un istinto di autoconservazione che sembra aver "imparato" dalla tragica sorte della sua gemella spirituale. È come se la morte di Weronika fosse un avvertimento silenzioso, un segnale trasmesso attraverso l'etere dell'esistenza che permette a Véronique di fare una scelta diversa, di rinunciare al canto per salvarsi il cuore. Il film suggerisce una sorta di economia del destino, un universo in cui l'esperienza, anche quella tragica, non va sprecata ma viene misteriosamente ereditata.

L'ultimo atto del film, con l'apparizione del burattinaio Alexandre (Philippe Volter), eleva ulteriormente il discorso a un livello metatestuale. Alexandre è un creatore di mondi, un artista che, come Kieślowski, manipola i fili per dare vita a narrazioni. Crea un burattino identico a Véronique, raccontandole la storia di una ballerina che si rompe una gamba e diventa sarta. È una metafora del destino, della scelta e della rinuncia. Ma quando Véronique si riconosce nella marionetta, la sua reazione – di turbamento, di lacrime – rompe l'incanto. Il personaggio sembra acquisire coscienza della propria natura di "creatura", di essere parte di un disegno più grande. Il burattinaio, l'artista, può solo osservare questa presa di coscienza, questo mistero dell'individualità che sfugge persino al suo creatore. È un momento di una profondità vertiginosa, che ricorda le scatole cinesi e i labirinti esistenziali di un Italo Calvino o le riflessioni di Pirandello sul rapporto tra autore e personaggio. È il film che riflette su se stesso, sull'atto di narrare e sul potere dell'arte di toccare le corde più profonde e inspiegabili dell'esperienza umana.

Rivedere oggi La doppia vita di Veronica significa confrontarsi con un cinema che osa essere ambiguo, che preferisce la suggestione alla spiegazione, la poesia alla prosa. In un'era di narrazioni iper-spiegate e universi narrativi meticolosamente costruiti, l'opera di Kieślowski ci ricorda che il potere più grande del cinema risiede forse nella sua capacità di evocare il mistero, non di risolverlo. Non c'è un puzzle da ricomporre, ma una sensazione da accogliere. Come in un sogno lucido o in un racconto di Julio Cortázar, dove le leggi della fisica e della logica lasciano il posto a quelle, più arcane e potenti, della connessione e dell'intuizione. Il film non ci chiede di capire come e perché Weronika e Véronique siano legate; ci chiede di sentire il peso di quel legame, la tristezza inspiegabile di Véronique dopo la morte della sua controparte, la sua improvvisa e salvifica decisione di proteggere il proprio cuore. È un invito a credere, non alla magia, ma alla possibilità che esistano fili invisibili a collegare le nostre vite, che ogni scelta che compiamo riverberi in un altrove sconosciuto e che, forse, non siamo mai veramente soli nella nostra unicità.

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