La gatta sul tetto che scotta
1958
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Regista
Un caldo soffocante, denso come melassa, che si appiccica alla pelle e impregna ogni fibra del sontuoso set della Metro-Goldwyn-Mayer. È il primo, e più potente, personaggio non accreditato de La gatta sul tetto che scotta, un'afa che non è solo climatica ma morale, psicologica, esistenziale. Il film di Richard Brooks, trasposizione per il grande schermo del dramma premio Pulitzer di Tennessee Williams, pulsa di questa calura, la trasuda da ogni inquadratura in Technicolor, la fa vibrare nelle voci di un cast in stato di grazia. È il calore della menzogna, il vapore tossico delle verità non dette che sale dalle fertili, ma marcescenti, terre del Delta del Mississippi.
Al centro di questa fornace emotiva, due corpi celesti di una bellezza quasi offensiva, quasi mitologica, bruciano di una fiamma fredda. Elizabeth Taylor è Maggie "la Gatta", fasciata in un iconico sottabito di seta bianca che sembra una seconda pelle, una corazza di vulnerabilità. I suoi occhi viola sono due abissi di frustrazione e disperato amore. Paul Newman è Brick, l'ex stella del football, l'eroe infranto che annega il suo dolore – un dolore senza nome, o meglio, con un nome che non si può pronunciare – in un fiume di whisky. La sua gamba ingessata e la stampella che brandisce come uno scettro spezzato sono la perfetta metafora della sua paralisi interiore. La loro camera da letto non è un nido d'amore, ma un'arena, un ring dove si scontrano il disperato bisogno di connessione di lei e il glaciale, alcolico rifiuto di lui. È un duello che ricorda le atmosfere claustrofobiche di una pièce di Strindberg, ma filtrato attraverso la lente opulenta e corrusca del melodramma hollywoodiano.
La grandezza del film di Brooks risiede nella sua capacità di orchestrare una sinfonia di dissimulazioni. La trama è apparentemente semplice: una riunione di famiglia per celebrare il 65° compleanno del patriarca, "Big Daddy" Pollitt (un Burl Ives tellurico, monumentale, che riprende il ruolo già incarnato a Broadway), a cui è stata appena diagnosticata una malattia terminale. Tutti lo sanno, tranne lui e sua moglie, Big Mama. Attorno a questo segreto si avvolge un nido di vipere: l'altro figlio, Gooper, e sua moglie Mae, con la loro prole di "mostri senza collo", sono avvoltoi che volteggiano sul patrimonio, campioni di un'ipocrisia untuosa e soffocante. Ma la menzogna più grande, quella che avvelena l'intera tenuta, è quella che ammorba la relazione tra Brick e Maggie, e soprattutto quella di Brick con se stesso.
Qui si annida il genio e, al contempo, il compromesso storico dell'opera. Il Codice Hays, quella grande mannaia puritana che pendeva sulla creatività della Hollywood classica, imponeva a Brooks e allo sceneggiatore James Poe di epurare il testo di Williams del suo nucleo incandescente: l'omosessualità, o quantomeno il profondo legame omoerotico, tra Brick e il suo defunto amico Skipper. Nel film, la causa del suicidio di Skipper e del conseguente crollo di Brick viene nebulizzata in un vago tradimento legato a Maggie. È una castrazione tematica che, per un paradosso squisitamente cinematografico, finisce per amplificare il subbuglio interiore di Brick, trasformandolo in un enigma ancora più denso. L'assenza diventa una presenza fantasma; il film si costruisce attorno a un vuoto che risucchia ogni cosa, un buco nero di repressione. Quello che nella pièce era esplicito, qui diventa un arto fantasma, un dolore che il personaggio sente con una violenza inaudita ma di cui non può indicare la fonte. E Newman, con la sua recitazione implosa, tutta sguardi persi e silenzi carichi di elettricità, rende questo vuoto palpabile, quasi tangibile. Il film stesso è costretto a mentire sul tema della menzogna, in un gioco di specchi meta-testuale di vertiginosa intelligenza.
La regia di Brooks è magistrale nel tradurre la verbosità teatrale in puro linguaggio cinematografico. Nonostante l'unità di luogo e tempo, il film non risulta mai statico. Brooks usa l'ampiezza del CinemaScope non per disperdere l'azione, ma per incorniciare la solitudine dei suoi personaggi, spesso isolandoli ai margini di spazi vasti e opulenti. La fotografia di William Daniels, satura di colori quasi violenti, crea un contrasto lancinante tra la ricchezza materiale dei Pollitt e la loro povertà spirituale. È una lezione che Brooks ha imparato dal maestro del melodramma, Douglas Sirk: usare l'estetica patinata del sogno americano per svelarne l'incubo sottostante. Come in Come le foglie al vento, la lussuosa casa di famiglia diventa un mausoleo di desideri inespressi e fallimenti esistenziali.
Il cuore pulsante del film è lo scontro titanico tra Big Daddy e Brick nel vasto seminterrato, un girone infernale stipato di cianfrusaglie del passato, di memorie e di polvere. È qui che il dramma raggiunge il suo acme. La performance di Burl Ives è un miracolo di sfumature: la sua volgarità, la sua brama di vita, la sua rabbia contro la falsità che lo circonda e la sua disperata ricerca di un briciolo di verità da parte del figlio prediletto sono travolgenti. Quando urla "Mendacity!", non sta solo condannando la sua famiglia; sta vomitando addosso all'ipocrisia di un'intera società. In questo duello edipico, che ha la potenza di un dialogo di Dostoevskij e la brutalità di un dramma di Eugene O'Neill, le maschere crollano. Big Daddy costringe Brick a confrontarsi con il suo "disgusto", e anche se la parola chiave non viene mai pronunciata, la tensione sessuale ed emotiva che Newman proietta è quasi insopportabile. È uno dei più grandi faccia a faccia della storia del cinema, un momento in cui la recitazione trascende se stessa per diventare pura, dolorosa verità.
E poi c'è lei, la gatta. Elizabeth Taylor, reduce da un periodo personale turbolento (il suo terzo marito, Mike Todd, era morto in un incidente aereo poco prima delle riprese), riversa nel personaggio di Maggie una ferocia e una vulnerabilità che lasciano senza fiato. Non è una semplice seduttrice; è una lottatrice, una sopravvissuta. La sua sensualità non è mai gratuita; è l'unica arma che le è rimasta per squarciare il velo di indifferenza del marito. Il suo monologo iniziale, un torrente di parole che si infrange contro il silenzio di Brick, è un pezzo di bravura che stabilisce immediatamente la dinamica di potere e desiderio che governa la loro relazione. È la sua determinazione a restare su quel "tetto che scotta", a non cadere, a fornire al film il suo motore narrativo e la sua (fragile) speranza.
Il finale, modificato rispetto all'amarezza senza sconti di Williams per volere dello studio, offre una riconciliazione che potrebbe apparire posticcia. Brick getta il cuscino sul letto, un gesto simbolico che promette la fine della sua astinenza e l'inizio di una nuova, forse più onesta, fase della loro vita. Eppure, anche in questa concessione al lieto fine, Brooks riesce a insinuare un'ombra di ambiguità. La menzogna di Maggie sulla sua gravidanza, concepita per assicurare a Brick la sua parte di eredità, diventa una "verità" che entrambi scelgono di rendere reale. Non è un trionfo della sincerità, ma la decisione consapevole di costruire un futuro su una bugia condivisa, che è forse l'unica forma di verità possibile nel mondo corrotto dei Pollitt. È una conclusione che, nella sua essenza, rimane profondamente williamsiana: la salvezza non si trova nella verità assoluta, ma nella fragile, disperata compassione che nasce dalla reciproca comprensione delle proprie debolezze. La gatta sul tetto che scotta rimane un'opera fiammeggiante, un capolavoro imperfetto la cui imperfezione, dettata dalla censura, diventa la sua più profonda e dolorosa dichiarazione di intenti. Un film che brucia ancora oggi, con la stessa intensità di quel torrido giorno sul Delta del Mississippi.
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