La Grande Abbuffata
1973
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Regista
Un film che per certi versi ricorda molto da vicino il teatro di Pinter: sia per il taglio teatrale della sceneggiatura (l’ambientazione è quasi esclusivamente unica, un claustrofobico set che diviene metafora di una prigione esistenziale da cui non v'è scampo né redenzione possibile), sia per il sapore cinico, grottesco e amaramente ironico che permea l’intreccio. L'eco dell'assurdo di beckettiana memoria non è solo una suggestione estetica, ma una cifra stilistica che Ferreri padroneggia con maestria, creando un'atmosfera sospesa, intrisa di una minaccia indefinita, un disagio palpabile che scaturisce non da un evento esterno, ma dall'implosione di un mondo interiore. La ripetitività ossessiva dei gesti, l'incomunicabilità sottesa al rituale del pasto, persino il progressivo deteriorarsi della ragione e del corpo, richiamano le pièce del drammaturgo inglese, dove l'attesa e il non-detto sono spesso più eloquenti di qualsiasi dialogo, e la stasi è un preludio all'inevitabile consunzione.
Un’opera di un’intelligenza acuta e penetrante questa di Marco Ferreri, che si conferma affabulatore e cineasta di grande levatura. Un autore scomodo, refrattario alle facili catalogazioni, la cui filmografia è una galleria di personaggi al limite, spesso in rotta con le convenzioni sociali o intrappolati in dinamiche surreali che rivelano la vacuità del vivere contemporaneo. Da Dillinger Is Dead (dove l'omicidio e il voyeurismo si trasformano in gesti di disperata, quasi infantile, ribellione) a Ciao Maschio (lucida e grottesca analisi della crisi dell'identità maschile nella società del consumo), Ferreri ha sempre sondato le derive della società borghese, la mercificazione dei sentimenti e dei corpi, anticipando con preveggenza le patologie di un'epoca post-industriale ormai votata al consumo illimitato e alla bulimia esistenziale.
La storia è quella di quattro uomini che si ritrovano in un casolare con un obiettivo comune: morire di sesso e di cibo. Ma non è un suicidio inteso come atto disperato o finale. È piuttosto un'auto-annientamento metodico, quasi scientifico, un ultimo baluardo contro un'esistenza svuotata di senso. È la rappresentazione estrema di una civiltà che ha raggiunto l'apice della sua prosperità materiale, ma che si è al contempo consumata spiritualmente, trovando nell'eccesso più sfrenato l'unica, perversa, forma di autenticità rimasta. Il cibo, da nutrimento essenziale, si trasforma in strumento di auto-distruzione, in veleno che lentamente corrompe non solo il corpo, ma l'ultima parvenza di umanità, in un banchetto funebre che celebra la fine di un'epoca.
I quattro sono un ristoratore (Ugo), un pilota di aerei (Marcello), un produttore televisivo (Michel) e un magistrato (Philippe). Scelte non casuali, ma archetipi di una borghesia italiana ed europea stanca, opulenta e disillusa negli anni '70, un decennio di fermenti e disillusioni. Il ristoratore, signore del cibo e della convivialità, ne diventa vittima sacrificale, il boia di se stesso; il pilota, simbolo di libertà, evasione e controllo tecnologico, si rinchiude in una prigione autoinflitta, dismettendo le ali; il produttore televisivo, artefice di immagini, illusioni e intrattenimento di massa, si confronta con la cruda, ineluttabile realtà della carne e della sua decomposizione; il magistrato, custode della legge e dell'ordine civile, ne celebra la definitiva anarchia e il crollo di ogni struttura morale. È una sorta di pantheon decadente, un concilio di figure che hanno incarnato il successo e il potere di un'epoca e ora ne decretano il fallimento in un rituale dionisiaco di auto-consumazione, un ultimo, disperato grido di liberazione dal vuoto.
Una menzione d’onore per tutti e quattro gli attori protagonisti, davvero arduo trovare chi prevalga. Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Michel Piccoli, Philippe Noiret: giganti del cinema internazionale che, in un atto di coraggio e totale abnegazione artistica, accettano di spogliarsi delle loro maschere di seduttori, intellettuali o eroi, per incarnare una grottesca, quasi repellente, umanità al collasso. La loro intesa è palpabile, una sinfonia di gesti, sguardi e silenzi che comunica una profonda malinconia e una rassegnata complicità in questa folle impresa. È un'interpretazione corale che eleva il film da pura provocazione a un'indagine profondamente umana, quasi filosofica, sulla fine di un ciclo storico e spirituale, offrendo una performance fisica e psicologica che supera ogni limite.
A Ferreri non interessa esprimere giudizi morali sul comportamento dei protagonisti nè se la loro impresa possa avere implicazioni sociali tali da celare una denuncia: a Ferreri interessa documentare il lato onirico di questa storia facendolo collidere violentemente con il piano del reale e creando una sorta di alveo intermedio in cui incanalare la narrazione. Questo spazio liminale è il cuore pulsante del film, un territorio inesplorato dove la realtà si deforma fino a farsi incubo, e l'onirico si materializza con una crudezza quasi insopportabile. Non è un cinema di tesi o di giudizio sentenzioso, quanto piuttosto di osservazione acuta, impietosa e distaccata, che lascia allo spettatore il compito di decifrare il significato di tanta autodistruzione. Si pensi a certi momenti del cinema di Luis Buñuel, dove il banchetto e la convivialità si trasformano in riti surreali e disturbanti, rivelando le pulsioni più recondite e la decadenza morale dietro la patina della civiltà. Ferreri, tuttavia, aggiunge una dimensione carnale, viscerale, che Buñuel spesso sublima in allegoria intellettuale; qui il cibo e i corpi sono presenze ineludibili, quasi tangibili, nella loro abbondanza e successiva, inquietante corruzione.
Un film grottesco, se vogliamo surreale nella sua minuziosa caratterizzazione psicologica dei quattro esseri dionisiaci che sono seduti a tavola, a fronte di una storia in bilico tra dramma e goliardia con una punta di amarezza che screzia tutta la narrazione ed esplode nel finale. Il dionisiaco, inteso non solo come celebrazione dell'eccesso sensoriale, ma come regressione a uno stato primordiale, un rifiuto dell'ordine apollineo in favore del caos e della dissoluzione. La goliardia iniziale, fatta di scherzi, provocazioni e ostentata spensieratezza, lascia progressivamente il posto a una stanchezza esistenziale, a un'apatia che prelude all'annichilimento. La pellicola, presentata in concorso al Festival di Cannes nel 1973, suscitò scandalo e accesi dibattiti, proprio per la sua capacità di sfidare le convenzioni, di rompere tabù e di mettere a nudo, con impietosa lucidità, le ossessioni di una società in transizione, già irrimediabilmente votata all'iper-consumo. È un'opera che ha avuto la forza di prefigurare, con quasi profetica lucidità, il dilagare di una cultura dell'eccesso e del consumo che, a distanza di decenni, non accenna a placarsi, ma si è anzi amplificata. La Grande Abbuffata rimane un monito bruciante, un'allegoria agghiacciante di un mondo che, nel suo ingurgitare indiscriminato, rischia di soffocare nella propria opulenza, implodendo su se stesso in un ultimo, macabro banchetto.
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