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La jetée

1962

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Un esperimento surreale questo cortometraggio di Chris Marker (l’unico cortometraggio ad apparire in questa lista), definito in varie occasioni dallo stesso autore come “cineromanzo”, “opera per immagini”, “fotoracconto”. Queste definizioni, apparentemente semplici, celano in realtà la profondità di un’operazione artistica che trascende i confini tradizionali del mezzo. Marker, figura enigmatica e poliedrica, intellettuale saggista prima ancora che regista, intuisce la potenza intrinseca dell’immagine fissa come veicolo narrativo ed emotivo. L’appellativo di “cineromanzo” suggerisce un’ambiziosa fusione tra la narrazione letteraria e la fruizione cinematografica, dove la lentezza contemplativa del fotogramma sostituisce la fluidità del movimento, invitando lo spettatore a una partecipazione più attiva, quasi meditativa. Non è semplicemente una serie di fotografie animate, ma una ricerca sulla natura stessa della memoria e della percezione, un saggio filosofico imbastito di immagini. In un’epoca dominata dalla Nouvelle Vague e dal suo inno alla spontaneità e al movimento della macchina da presa, Marker sceglie la radicalità della stasi, elevandola a cifra stilistica e concettuale.

Si tratta della storia che ha ispirato che “L’esercito delle 12 scimmie” di Gilliam. Se il film di Terry Gilliam ha ripreso la premessa narrativa e il paradosso temporale, trasformandolo in un delirio visivo di barocca complessità, esso non ha mai raggiunto l’intensa e quasi dolorosa intimità dell’originale markeriano. Laddove Gilliam esplora le ramificazioni di una distopia tecnologica e il confine labile tra sanità e follia, Marker si immerge nell’abrambo della memoria e del destino ineludibile. La sua opera, pur essendo un caposaldo del cinema di fantascienza, è innanzitutto una meditazione sulla natura circolare del tempo e sull’ineluttabilità degli eventi, un memento mori che si dispiega attraverso gli occhi di un uomo intrappolato nel suo stesso ricordo.

Dopo un’apocalisse nucleare un uomo viene inviato indietro nel tempo dagli ultimi resti dell’umanità rintanata nel sottosuolo. Il suo obiettivo è quello di scongiurare l’olocausto individuandone la causa. Ma l’uomo è tormentato da un suo olocausto privato: i lacerti mnemonici di un omicidio a cui assistette bambino. Questa ferita primordiale, un’immagine impressa a fuoco nella sua psiche infantile, non è solo un catalizzatore della sua missione, ma la chiave di volta di tutta l’architettura narrativa. Marker intreccia qui la tragedia macroscopica della fine del mondo con quella microscopica e profondamente personale, suggerendo che le grandi catastrofi collettive nascano spesso da traumi individuali irrisolti o da ossessioni private. Il viaggio nel tempo diventa così un viaggio introspettivo, una discesa nelle stratificazioni della coscienza, dove il passato non è mai veramente trascorso ma è un presente perpetuo che plasma il futuro. L'uomo è un prigioniero non solo del tempo, ma della propria psiche, in un ciclo senza fine.

Un’opera realizzata esclusivamente per immagini (niente girato), da molti considerata prova di genio e caposaldo ineludibile del genere fantascientifico. Questa scelta formale, dettata forse inizialmente da vincoli di budget ma elevata a principio estetico e filosofico, conferisce a La jetée una risonanza unica. L'assenza di movimento, il susseguirsi di fotogrammi statici, non crea un senso di immobilità, bensì stimola una percezione iper-sensoriale, una dilatazione del tempo di visione. Ogni immagine, spesso un volto, uno sguardo, un dettaglio architettonico, è caricata di un'intensità quasi pittorica, come un Caravaggio o un Rembrandt che, pur immobili, vibrano di vita e dramma. È il cinema che diventa fotografia, e la fotografia che si fa narrazione. La voce narrante, onnipresente e lirica, diviene l'unico elemento "fluido" in questo mosaico di istanti congelati, guidandoci con una prosa quasi poetica attraverso i meandri della psiche del protagonista e del suo mondo desolato. È proprio questa dialettica tra l'immobilità visiva e la fluidità verbale a generare una tensione narrativa avvincente, trasportando lo spettatore in un'esperienza che sfida le convenzioni della narrazione filmica. Il contesto storico della Guerra Fredda e la minaccia atomica imminente, d'altronde, fornivano un substrato di ansia esistenziale che trova perfetta eco in questa frammentazione visiva e narrativa.

Quello che colpisce di questa opera è la forza iconica di ogni immagine, una sorta di piano onirico in cui veniamo immediatamente calati. Se ci pensate i nostri sogni sono costituiti da immagini, le parole sono una mera ricostruzione a posteriori che operiamo sul tessuto iconografico. La stessa operazione viene compiuta da Chris Marker (il suo corto ricorda la macchina cattura sogni di Wim Wenders in “Fino alla Fine del Mondo”): ogni singolo fotogramma diventa LA storia, semantica per immagini. Il richiamo al sogno non è casuale: La jetée si muove sui binari del subconscio, dove la logica lineare cede il passo a una concatenazione di sensazioni e simboli. L'opera si pone in un dialogo stretto con il Surrealismo di Breton e Buñuel, non attraverso l'irrazionalità deliberata, ma tramite l'esplorazione di una realtà interna, quasi tattile nella sua evocazione di un'angoscia esistenziale profonda. Ogni frame è un tassello di un puzzle mnemonico, un frammento di tempo e di psiche che il nostro cervello è chiamato a riempire, a connettere, a dare movimento. È in questo spazio interstiziale tra un'immagine e l'altra che il vero "film" si svolge, non sullo schermo, ma nella mente dello spettatore. Questa è la vera follia di Marker: non darti il movimento, ma la suggestione del movimento, costringendoti a crearlo da solo, rendendoti co-creatore della sua visione.

Il parallelo con Wenders si estende oltre la mera strumentazione fantascientifica; entrambi i registi, seppur con stili e sensibilità diverse, sono ossessionati dalla memoria, dalla sua fragilità e dal suo potere di conservazione in un mondo che sembra condannato all'oblio. Lì dove Wenders si interroga sulla saturazione tecnologica e sull'alienazione contemporanea, Marker si concentra sulla radice stessa dell'identità, legata indissolubilmente ai "ricordi precisi" che ci definiscono, fino al punto di divenire la nostra condanna. La jetée è una sinfonia visiva e sonora (la colonna sonora, seppur minimale, è fondamentale per evocare l'atmosfera e sottolineare i momenti chiave), un'esperienza che si insinua sotto la pelle e non ti abbandona più. Ventotto minuti di pura follia creativa, di grande estro cinematografico, che restano, a decenni dalla loro realizzazione, un faro inestinguibile nel panorama del cinema mondiale, un inno alla capacità dell'arte di indagare le profondità dell'animo umano e i misteri inestricabili del tempo e del destino.

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