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La leggenda di Narayama

1958

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Per entrare ne La leggenda di Narayama (Narayama Bushikō) di Keisuke Kinoshita, bisogna prima compiere un atto di fede estetica. Bisogna accettare l'artificio non come un limite, ma come il linguaggio stesso. Perché quella che Kinoshita orchestra nel 1958 non è una cronaca della disperazione; è un'opera Kabuki totale, un capolavoro di anti-realismo che usa la stilizzazione più estrema per raggiungere la verità emotiva più profonda.

Fin dalla prima inquadratura, siamo avvisati. Un sipario si apre, non su un villaggio, ma su un palcoscenico. La neve è palesemente finta. Le luci non simulano il sole, ma proiettano coni di colore espressionista – blu cobalto per la notte, ambra infuocata per gli interni. Un kuroko (il tecnico di scena vestito di nero, convenzionalmente "invisibile" nel teatro giapponese) muove gli oggetti e cambia le scenografie, un costante memento mori della costruzione narrativa. E, soprattutto, c'è il joruri, il cantastorie, che ci introduce alla leggenda con un canto ritmico. Kinoshita non sta cercando di ingannarci facendoci credere che siamo in un villaggio sperduto dello Shinshu. Sta urlando: "Questa è una rappresentazione! Questa è arte! Ora, prestate attenzione."

Questa scelta formale non è un ghiribizzo estetico; è il cuore filosofico del film. L'argomento è l'orrore assoluto: l'Ubasute, l'antica (e forse leggendaria) pratica del senicidio. In questo villaggio isolato dalla fame e dal tempo, la legge non scritta è ferrea: quando un anziano raggiunge i 70 anni, il figlio maggiore deve portarlo sulla schiena fino alla vetta del monte Narayama e abbandonarlo al gelo e agli elementi. Non è omicidio, è economia. È un atto di darwinismo sociale malthusiano, brutale e necessario, per garantire che ci sia abbastanza cibo per la generazione successiva. Raccontare questa storia con il naturalismo (come farà Imamura) la trasforma in un documento antropologico. Raccontarla con l'estetica Kabuki la eleva a tragedia greca, a mito universale sul conflitto tra giri (il dovere sociale) e ninjo (il sentimento umano).

È un mondo governato da una logica che ci è aliena. L'intera comunità è complice di un sistema di sopravvivenza che ha ridefinito la moralità. Il furto di cibo non è un reato minore; è un tradimento capitale. La punizione per il ladro e la sua famiglia, eseguita dall'intera comunità, è una delle sequenze più raggelanti della storia del cinema, proprio perché è presentata non con rabbia, ma con la fredda necessità di un rituale agricolo. La vita umana ha un valore puramente utilitaristico. E in questo contesto, l'avvicinarsi del settantesimo compleanno di Orin (interpretata da una sublime Kinuyo Tanaka) diventa l'evento centrale.

La grandezza del personaggio di Orin, e della performance della Tanaka, sta nella sua agghiacciante pragmatismo. Non è una vittima rassegnata. È una matriarca che accetta la legge perché la comprende. La sua preoccupazione principale non è la morte, ma l'assicurare la continuità della famiglia. Deve trovare una nuova moglie per suo figlio vedovo, Tatsuhei (Teiji Takahashi), e deve assicurarsi che lui sia "uomo" a sufficienza per compiere il rito finale. Il film sovverte ogni nostra aspettativa: è la madre che spinge per la propria fine, è il figlio che trema e cerca di ritardare l'inevitabile. Tatsuhei è il portatore dell'umanesimo moderno, dell'amore filiale che noi consideriamo "naturale", ma che in questo contesto è un lusso, una debolezza pericolosa.

La scena più sconvolgente, quella che definisce il personaggio di Orin, è l'atto di auto-mutilazione. Per conformarsi allo status di "inutile" che giustifica la sua dipartita, e per svergognare il nipote ribelle Kesakichi che la deride per la sua salute, Orin si rompe deliberatamente i denti incisivi (ancora sani) contro una pietra. Kinoshita non ci risparmia il suono, lo shock. È un atto di volontà suprema, un sacrificio fisico che precede quello spirituale. Sta preparando se stessa, e la sua famiglia, alla necessità della sua assenza. La nuova moglie, Tama (Yūko Mochizuki), che accetta questa logica e ammira la suocera, è l'unica che comprende la sua grandezza.

Kinoshita, uno dei "Quattro Grandi" (con Kurosawa, Mizoguchi e Ozu), è forse il più camaleontico. Qui, abbandona il neorealismo dei suoi film post-bellici per un'estetica che è puramente pittorica. Girato interamente in studio, il film utilizza scenografie che scorrono orizzontalmente, come un antico rotolo dipinto emakimono, creando un senso di viaggio perpetuo e ciclico. La fotografia (del grande Hiroshi Kusuda, che lavorò spesso con Ozu) usa i colori primari del FujiColor non per il realismo, ma per la simbologia. I fondali sono dipinti con una piattezza deliberata. Quando Tatsuhei porta Orin sulla schiena, non camminano in una foresta, ma attraverso una serie di quadri viventi.

L'illuminazione è puro espressionismo. I personaggi sono spesso isolati da un riflettore contro uno sfondo nero pece, come se il villaggio esistesse in un vuoto cosmico, illuminato solo dalla fiamma della loro disperazione. È un effetto profondamente Brechtiano: il Verfremdungseffekt (effetto di straniamento) è totale. I kuroko che sistemano la gerla sulla schiena di Tatsuhei, o che agitano rami per simulare il vento, ci impediscono di cadere nel facile sentimentalismo. Ci costringono a pensare al significato del rituale, alla struttura della leggenda, piuttosto che a sentire passivamente la tragedia.

Eppure, paradossalmente, questa distanza artificiale amplifica l'emozione. Il viaggio finale verso la montagna è uno dei momenti più strazianti del cinema. Mentre salgono, la scenografia si fa sempre più astratta, quasi monocromatica. Attraversano le stagioni – un trucco teatrale reso possibile dalla scenografia mobile – fino ad arrivare alla vetta desolata, un paesaggio lunare costellato di scheletri e corvi. È il Golgota del villaggio. La compostezza di Orin, che dà le ultime istruzioni al figlio in lacrime ("Non voltarti finché non sei in fondo alla valle"), è devastante. E quando Tatsuhei, sconvolto, inizia la discesa e la neve comincia a cadere (una neve palesemente artificiale, eppure perfetta), la musica di Chūji Kinoshita e Matsunosuke Nozawa esplode in un lamento che trafigge lo schermo.

Kinoshita osa chiudere con un pugno nello stomaco meta-cinematografico. Dopo l'abbandono di Orin e la sua accettazione stoica della morte che arriva con i fiocchi di neve, la macchina da presa si allontana dalla vetta... e ci mostra un treno moderno che sfreccia attraverso quella stessa valle. Con un solo taglio, il regista ci strappa dalla leggenda e ci scaraventa nel Giappone del 1958. La domanda che pone è assordante: siamo davvero così diversi? Abbiamo superato queste brutalità, o le abbiamo semplicemente mascherate con la tecnologia e l'economia moderna? L'Ubasute è finito, o lo pratichiamo in forme più "civilizzate" nelle nostre case di riposo?

La leggenda di Narayama è un'opera di una bellezza formale quasi insopportabile, un saggio sulla crudeltà della necessità. Rifiutando il realismo, Kinoshita ha creato l'incubo più reale di tutti, un'allegoria senza tempo sulla sottile vernice della civiltà che copre l'abisso della nostra biologia. È la prova che l'artificio, nelle mani di un maestro, è lo strumento più affilato per incidere la verità.

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