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La Nascita di una Nazione

1915

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"La nascita di una nazione" di D.W. Griffith è un'opera che ha segnato profondamente la storia del cinema, scatenando un dibattito ancora oggi attuale sulla rappresentazione razziale e sulla funzione sociale del cinema, una discussione che si riverbera con veemenza nel contemporaneo dibattito sulla cancel culture e sulla separazione tra l'artista e la sua opera. Griffith, con la sua ambizione smisurata e la sua maestria tecnica, ha creato un'opera monumentale, un vero e proprio Leviatano visivo per l'epoca, ricca di innovazioni che hanno rivoluzionato il linguaggio cinematografico, forgiandone la grammatica stessa. Tuttavia, la sua visione fortemente parziale e ideologica, che glorifica il Ku Klux Klan e denigra la popolazione afroamericana con una ferocia degna di ben altro proposito, rende il film un'opera profondamente problematica e che di fatto più di ogni altra scatenò feroci polemiche da un lato e scolpì i concetti primitivi della grammatica cinematografica dall'altro. Non si trattò di semplici mugugni, ma di un'onda di sdegno che vide la NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) guidare proteste e tentativi di censura in tutto il paese, ben consapevoli del potere nefasto di un'arte così pervasiva. Il montaggio parallelo, il primo piano, l'uso drammatico della luce e dell'ombra per scolpire i volti e le emozioni, la gestione magistrale delle masse e la pittura notturna: Griffith sperimenta con audacia nuove tecniche narrative, trasformando il cinema, allora ancora nella sua infanzia, in un mezzo espressivo potente e versatile, capace di infondere un afflato epico a eventi storici. La durata del film, di oltre tre ore, testimonia l'ambizione ciclopica di Griffith di raccontare una saga epica, di dipingere un affresco della storia americana post-bellica, quasi a voler codificare una nuova mitologia nazionale. Tuttavia, la magnificenza estetica e l'audacia tecnica del film non possono in alcun modo celare o attenuare il suo messaggio razzista e violento, anzi, ne amplificano la pericolosità. La rappresentazione del Ku Klux Klan come salvatore della patria, un ordine cavalleresco risorto dalle ceneri della sconfitta per difendere l'onore del Sud e la purezza della donna bianca, è un'apologia del razzismo che ha avuto conseguenze devastanti sulla cultura popolare e sulla politica americana, contribuendo in modo decisivo alla rinascita del KKK negli anni Venti e rafforzando l'apparato segregazionista delle leggi Jim Crow. Il film ha contribuito a diffondere stereotipi negativi sugli afroamericani, dipinti come brutali, lascivi e intrinsecamente inferiori, alimentando così l'odio razziale e legittimando l'oppressione sistemica.

Griffith dunque mette in campo un grande sforzo creativo e produttivo, con un budget senza precedenti per l'epoca e un cast imponente, tentando di conchiudere un momento topico e lacerante della storia americana in un’unica possente opera. Il film, basato sull'opera letteraria "The Clansman" di Thomas Dixon Jr., segue le vicende intrecciate di due famiglie, i nordisti Stoneman e i sudisti Cameron, mentre si trovano a combattere su fronti opposti durante la Guerra Civile. La Guerra è rappresentata in tutta la sua cruenta devastazione, con scene di battaglia che rimangono un paradigma per il genere storico-bellico. Ma è nel post-conflitto che il film svela il suo vero, problematico cuore: terminato il conflitto, il Sud è devastato e la popolazione afroamericana, appena liberata dalla schiavitù, cerca di integrarsi nella società, un processo che il film dipinge come un'anarchica minaccia all'ordine costituito. Il film presenta una visione altamente romanzata e idealizzata del Ku Klux Klan, descrivendolo come un gruppo di vigilanti, una sorta di forza para-militare eroica e necessaria, che combatte per ristabilire l'ordine e la giustizia nel Sud, minacciati dalla violenza e dall'anarchia di neri e "scalawags". Griffith dipinge il Klan come l’unica speranza di redenzione contro l’anarchia insurrezionalista della popolazione di colore, un’immagine così potente da essere riprodotta e venerata per decenni, un mito fondativo del "Lost Cause" sudista. La rappresentazione degli afroamericani è profondamente problematica e stereotipata: sono dipinti come violenti, incapaci di autogovernarsi, inclini alla criminalità e alla dissolutezza, e responsabili di tutti i mali che affliggono il Sud in fase di ricostruzione. Persino l'uso di attori bianchi con il blackface per interpretare i personaggi neri amplifica il disagio e la voluta caricatura razziale. Il suo sembra un goffo tentativo di contestualizzare le tensioni sociali e di sublimarle nella volontà di cooperazione tra Nord e Sud dopo lo scontro, uniti per la costruzione di un paese stabile e forte. Ma così facendo non fa altro che distorcere la Storia, piegandola alle proprie convinzioni e a un'ideologia retrograda e pericolosa, generando un "palinsesto" narrativo che ha contribuito a forgiare il mito americano su fondamenta di odio e divisione. La proiezione del film alla Casa Bianca per il presidente Woodrow Wilson, che si dice abbia affermato: "È come scrivere la storia con un lampo, e il mio unico rimpianto è che sia tutto così terribilmente vero", divenne un infame sigillo di legittimazione, ancor più problematico considerando il passato sudista di Wilson.

"La nascita di una nazione" è un film che, pur essendo un'opera pionieristica e seminalmente influente dal punto di vista tecnico – un vero e proprio compendio delle possibilità espressive nascenti del mezzo cinematografico –, è profondamente segnato e corrotto dalle ideologie razziste dell'epoca in cui è stato realizzato, e dalle convinzioni personali, e non da ultimo, dagli interessi di un uomo. È un'opera complessa e controversa, un monolite ambivalente che ci invita a riflettere sul potere del cinema non solo come intrattenimento, ma come potentissimo strumento di propaganda e sulla sua intrinseca responsabilità sociale. Da un lato è un capolavoro senza tempo che getta le basi tecniche e concettuali del moderno linguaggio cinematografico, un faro che ha illuminato il cammino per generazioni di registi, da Eisenstein a Ford. Dall'altro, è una visione storica altamente parziale e ideologica, un ricettacolo di pregiudizi mediante la quale Griffith utilizza il cinema per promuovere una visione romanticizzata e tossica del Sud e giustificare le nefandezze del Ku Klux Klan. E alla fine della visione sorge prepotente un quesito allo spettatore, un dilemma che travalica la semplice critica cinematografica e si insinua nella morale di ognuno: è possibile separare il piano semantico e il piano estetico e tentare un approccio disincantato, una sorta di "epoche" fenomenologica, verso un'opera d'arte così intrinsecamente problematica? Può un’opera d’arte essere ammirata esclusivamente per il suo messaggio estetico, per la sua innovazione formale, fermo restando il suo odioso e palese tono razzista e il suo impatto devastante sul reale? Oppure occorre condannarla per la raccapricciante deformazione del reale corso degli eventi, per la sua intrinseca immoralità, trascinandola nella polvere senza appello? La risposta è affidata alla coscienza di ogni uomo, alla sua capacità di discernimento e al suo onesto approccio con la Storia e con l'Arte, e qualsiasi essa sia, purché frutto di riflessione critica, ha pari dignità.

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