
La rivolta di Hadley
1983
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Regista
La cartografia è un atto di violenza. Su questo assunto, tanto semplice quanto devastante, si regge l'intera architettura de "La rivolta di Hadley" di Alistair Finch. Non è un film su una ribellione; è un film sull'arroganza della linea retta tracciata su una realtà curva e organica, sulla pretesa della ragione illuminista di poter recintare, nominare e quindi possedere l'incontenibile. Finch, un regista la cui intera opera può essere letta come una meticolosa vivisezione del formalismo britannico, qui compie la sua mossa più audace e paradossale: utilizza la precisione quasi patologica della sua messa in scena per filmare il collasso di ogni forma di ordine.
Siamo in una colonia nordamericana fittizia, Nuova Albione, alla fine del XVIII secolo. Il protagonista, Edmund Hadley (interpretato da un Daniel Day-Lewis in stato di grazia, prima ancora che il suo metodo diventasse leggenda), non è un soldato o un agitatore. È un cartografo, un uomo di scienza la cui fede risiede nel teodolite e nella perfezione della scala. Il suo compito è tracciare i confini della nuova provincia, trasformando la foresta primordiale, il "selvaggio" per eccellenza, in un reticolo di quadrati e appezzamenti pronti per essere sfruttati. Il suo strumento non è il moschetto, ma la riga e il compasso. Eppure, la violenza che esercita è forse più profonda, più originaria. Come in "The Draughtsman's Contract" di Peter Greenaway, il contratto qui non è solo economico, ma metafisico: in cambio di un compenso, il disegnatore si arroga il diritto di definire la realtà, di imprigionarla in una prospettiva. Ma se in Greenaway il gioco è un cerebrale e perverso divertissement barocco, in Finch diventa una tragedia di proporzioni cosmiche.
La fotografia di Roger Deakins – che qui compie un lavoro che prefigura la sua futura estetica del sublime desolato – è il primo indizio della schizofrenia del progetto coloniale. Le scene all'interno dell'avamposto sono composte con una rigidità geometrica che evoca i dipinti di Vermeer o le nature morte fiamminghe: ogni oggetto è al suo posto, la luce cade con precisione chirurgica, gli uomini si muovono come pezzi su una scacchiera. Ma non appena la cinepresa segue Hadley nella foresta, tutto cambia. La camera si fa più mobile, quasi a mano, l'aria si riempie di pulviscolo e umidità, la profondità di campo si riduce, intrappolando il personaggio in un groviglio di vegetazione che sembra respirare e osservare. È il passaggio dal mondo apollineo della ragione a quello dionisiaco dell'istinto, il territorio contro la mappa. È lo stesso terrore numinoso che pervade le pagine di "Cuore di tenebra" di Conrad, dove l'avanzare geografico corrisponde a una regressione psicologica nelle profondità dell'animo umano.
La rivolta del titolo non scaturisce da un singolo evento, ma si accumula lentamente, come pressione tettonica. È il risultato dell'aporia fondamentale del progetto di Hadley: più cerca di imporre le sue linee sulla terra, più la terra stessa – e i suoi abitanti indigeni, filmati da Finch non come "nobili selvaggi" ma come parte integrante e incomprensibile del paesaggio – resiste, si deforma, lo respinge. La sceneggiatura, scritta dallo stesso Finch, è magistrale nel mostrare come il linguaggio razionale e burocratico dei colonizzatori si riveli progressivamente inadeguato, ridicolo, di fronte a una realtà che non può essere verbalizzata. I dispacci, i rapporti, le mappe diventano feticci inutili, significanti senza significato. La rivolta di Hadley, quando infine esplode, non è tanto un atto politico quanto un'abiura esistenziale. È il rigetto del suo stesso strumento di conoscenza, la confessione che la mappa non solo non è il territorio, ma ne è la negazione.
È qui che il film azzarda il suo parallelismo più insolito e profondo. La crisi di Hadley non è dissimile da quella che, nel secolo successivo, colpirà il linguaggio poetico romantico. Come Wordsworth o Coleridge hanno cercato di trovare un nuovo linguaggio per esprimere il sublime della natura contro le rigide forme neoclassiche, così Hadley si trova a dover distruggere il suo linguaggio (quello cartografico) per poter "sentire" la realtà che lo circonda. La sua rivolta è un atto di disperato romanticismo, un urlo contro l'universo meccanicistico di Newton. La violenza, brutale e caotica, diventa l'unica forma di comunicazione possibile quando le parole e le linee hanno fallito. La famosa sequenza del massacro all'accampamento del Geometra Reale è girata come un'eresia stilistica: Finch abbandona la sua compostezza e adotta uno stile quasi documentaristico, con tagli di montaggio frastagliati e un sound design assordante. È come se un brano di Bach venisse improvvisamente squarciato da un assolo di free jazz.
Un dettaglio che farà la gioia dei cinefili più feticisti riguarda proprio la colonna sonora. Finch incaricò la compositrice d'avanguardia Selina Croft di creare una partitura basata esclusivamente su strumenti d'epoca, come il clavicembalo e la viola da gamba. Per la maggior parte del film, la musica è un contrappunto ordinato e barocco all'azione. Ma nelle scene di violenza, la Croft prese le registrazioni originali e le distorse digitalmente, stirando le note, invertendole, aggiungendo feedback e rumore bianco. Il risultato è una rappresentazione sonora del collasso di un'intera civiltà: l'armonia dell'Illuminismo che si lacera, si contorce e muore.
Inserito nel suo contesto culturale – il film uscì alla fine degli anni '90, in un periodo di intenso dibattito post-coloniale e di revisione critica della storia occidentale – "La rivolta di Hadley" si distingue per la sua totale assenza di manicheismo. Finch non prende le parti di nessuno. I coloni non sono demoni sadici, ma uomini grigi, burocrati della conquista, sinceramente convinti della bontà civilizzatrice della loro missione. Gli indigeni non sono vittime angeliche, ma una forza della natura, inscrutabile e spesso terrificante nella sua alterità. Il film non offre risposte facili o catarsi morali. Ci chiede, piuttosto, di sospendere il giudizio politico per immergerci nella complessità estetica e filosofica di un momento di rottura. È un film che non parla tanto del colonialismo come evento storico, quanto del colonialismo della mente, del desiderio umano di addomesticare il caos attraverso la rappresentazione.
In questo, "La rivolta di Hadley" si rivela un'opera profondamente meta-testuale. Finch, il regista-cartografo che traccia le linee dell'inquadratura e definisce i confini del visibile, mette in scena la crisi del suo stesso potere demiurgico. Girare un film storico, suggerisce Finch, è un atto non dissimile da quello di Hadley: è tentare di imporre un ordine, una narrazione, una prospettiva su un passato caotico e irriducibile. La grandezza del film sta nel suo essere consapevole di questo paradosso e nel farne il proprio nucleo tematico. La rivolta finale non è solo quella di Hadley contro l'Impero, ma quella di Alistair Finch contro la tirannia della rappresentazione storica convenzionale. È un capolavoro che smantella la storia mentre finge di raccontarla, lasciandoci non con una lezione, ma con il sacro terrore di chi ha guardato oltre il bordo della mappa e ha visto che, al di là delle linee, c'è solo un abisso sublime e senza nome.
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