La sanguinaria
1950
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Regista
Un film non è un'esperienza da cui si esce sempre arricchiti o divertiti. Talvolta, è un'ordalia. Un rituale di passaggio che lascia cicatrici sulla retina e nell'anima, alterando per sempre la nostra percezione di ciò che il cinema, come forma d'arte, può e deve fare. "La Sanguinaria" (titolo italiano quasi scandalosamente riduttivo per l'imperativo biblico e apocalittico dell'originale Idi i smotri, "Vieni e vedi") di Elem Klimov non è un film di guerra. È la guerra. È una discesa agli inferi senza la guida di un Virgilio, un'immersione totale nell'orrore che non offre catarsi, ma solo la gelida e ineluttabile consapevolezza dell'abisso.
Realizzato nel 1985 per commemorare il quarantesimo anniversario della vittoria sovietica, il film di Klimov è l'antitesi di ogni retorica trionfalistica. Laddove il cinema bellico occidentale, persino nelle sue incarnazioni più critiche come Apocalypse Now o Full Metal Jacket, tende a mitizzare o a estetizzare la follia attraverso l'opera, la psichedelia o un cinismo quasi cool, Klimov compie un'operazione radicalmente opposta. Svuota il genere di ogni possibile appiglio narrativo convenzionale, di ogni eroismo riconoscibile, per restituire un'esperienza sensoriale e psicologica pura, un iperrealismo che tracima costantemente nell'incubo a occhi aperti. Il suo non è il viaggio di un Willard verso un Kurtz, figura mitologica e letteraria; è la via crucis di un ragazzino qualunque, Flyora, il cui volto diventa la mappa su cui il trauma incide le sue rughe premature, trasformandolo in un vecchio spettrale nel giro di poche ore.
Il viaggio di Flyora inizia con un atto quasi ludico, quasi sacro: dissotterrare un fucile per unirsi ai partigiani bielorussi. È l'ultimo gesto di un'infanzia che sta per essere annientata. Da quel momento, Klimov ci trascina con lui, usando la Steadicam di Aleksei Rodionov non come il fluido occhio onnisciente di un Kubrick, ma come un sismografo impazzito che registra ogni sussulto, ogni corsa affannosa, ogni sguardo terrorizzato. Spesso, Flyora si volta e fissa la macchina da presa, e con essa noi. Non è un ammiccamento brechtiano per ricordarci la finzione; è un'accusa diretta, una chiamata a testimoniare. "Vieni e vedi", ci intima il titolo, e lo sguardo del protagonista non ci permette di distoglierci, rendendoci complici silenziosi di un orrore che si svolge in un tempo quasi reale, dilatato e asfissiante.
L'universo sonoro del film è un'architettura infernale. Il bombardamento iniziale lascia Flyora parzialmente sordo, e Klimov traduce questo trauma in un sound design geniale e tormentoso: un fischio costante, un ronzio che isola il ragazzo dal mondo e al contempo amplifica il caos interiore. Su questo tappeto di acufene si innestano i suoni diegetici – le risate sguaiate dei soldati tedeschi, il pianto dei bambini, il ronzio delle mosche su un cadavere – e una partitura musicale che lavora in un contrappunto agghiacciante. Un frammento di Mozart può emergere dal caos solo per essere inghiottito dalle urla, creando un cortocircuito emotivo che nega ogni possibilità di consolazione estetica. È la colonna sonora della decomposizione della civiltà.
Se si dovesse cercare un parallelo pittorico, si dovrebbe abbandonare il cinema e rivolgersi ai "Disastri della guerra" di Goya o, ancor più precisamente, al pannello dell'Inferno nel "Giardino delle delizie" di Hieronymus Bosch. Klimov, come il maestro fiammingo, popola le sue inquadrature di un orrore grottesco e tellurico, dove il male non ha la maschera demoniaca della propaganda, ma il volto banale, ubriaco e festoso della crudeltà umana. La lunga, insostenibile sequenza del massacro nel fienile è il cuore nero del film. Non vediamo quasi nulla della violenza esplicita. La macchina da presa resta all'esterno, con Flyora, costringendoci a immaginare l'inimmaginabile, a sentire le urla che si fondono con le risate sguaiate e la musica da grammofono degli ufficiali delle Einsatzgruppen. Il vero orrore, suggerisce Klimov, non è la morte, ma la disumanizzazione che la precede e la celebra. È il male come spettacolo, come festa macabra.
Klimov stesso, la cui infanzia fu segnata dall'assedio di Stalingrado, riversò nel film un'urgenza personale e quasi esorcistica. Impiegò otto anni per ottenere i permessi e realizzare la sua visione senza compromessi, arrivando a utilizzare proiettili veri che sibilavano a pochi centimetri dalla testa del giovane attore Aleksei Kravchenko. Non si tratta di un aneddoto da produzione per amanti del brivido, ma della chiave per comprendere l'etica del film: per rappresentare l'inferno, bisogna lambirne le fiamme, rifiutare la sicurezza della finzione. Kravchenko, scelto per la sua sensibilità quasi medianica, fu sottoposto a uno stress psicologico immenso, con ipnotisti presenti sul set per aiutarlo a gestire il trauma. Il suo invecchiamento sullo schermo non è trucco, è la testimonianza fisica di un'esperienza che ha trasceso la recitazione per diventare vissuto.
Ma il colpo di genio definitivo, quello che eleva "La sanguinaria" a capolavoro meta-testuale e filosofico, è il finale. Dopo la liberazione del villaggio, Flyora trova un ritratto di Hitler nel fango. In un impeto di rabbia catartica, inizia a sparargli. A ogni colpo, Klimov monta a ritroso la Storia, in un rewind furioso e impossibile: le parate naziste, la salita al potere, il Putsch di Monaco, la giovinezza, l'infanzia... fino a un'ultima, scioccante immagine: una fotografia di Adolf Hitler neonato, in braccio alla madre. Flyora, con il fucile ancora puntato, esita. Il suo volto, ormai una maschera di sofferenza ancestrale, si contrae. Non spara.
In questo chiasmo temporale, Klimov non si limita a condannare il male. Pone la domanda più radicale e terribile: si può uccidere il male alla sua origine, quando è ancora innocenza? È possibile sradicare un'idea sparando al bambino che la incarnerà? La risposta di Flyora, e di Klimov, è un no silenzioso e devastante. Non si può "dis-creare" la Storia. L'impossibilità di compiere quel gesto finale è l'ammissione di un'impotenza cosmica di fronte al ciclo di violenza e alla radice del male, che non è un'aberrazione mostruosa ma un potenziale latente nell'umanità stessa. Flyora non può uccidere il bambino, perché significherebbe diventare come coloro che ha combattuto, coloro che hanno bruciato i bambini nel fienile. È il punto di rottura, il momento in cui la vendetta si scontra con l'ultimo brandello di umanità.
"La sanguinaria" è un'opera d'arte totale e terrificante, un'esperienza cinematografica che si avvicina più a un documento da una zona di guerra dell'anima che a un'opera di finzione. Non offre risposte, né eroi, né speranza. Offre solo una testimonianza. È il cinema che si fa cicatrice, un monolite oscuro nel paesaggio della settima arte che ci ricorda la sua capacità non solo di intrattenere o di far sognare, ma anche di costringerci a guardare, senza filtri, il volto della Medusa. E a non restare più gli stessi.
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