La Sfida del Samurai
1961
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Regista
Più che un semplice film, La Sfida del Samurai, o Yojimbo come universalmente conosciuto dal suo titolo originale, è una pietra angolare, un vero e proprio mito fondativo del cinema moderno. Un archetipo, ovvero un film che divenne una vera e propria risorsa per registi e uomini di cinema che ne “saccheggiarono” l’impianto narrativo per riadattarlo al genere western (Sergio Leone, per dirne uno) o metropolitano (Walter Hill, per dirne un altro) con “Ancora 48 ore” e “L’Ultima Spiaggia” (sebbene più indirettamente). La sua influenza si estende ben oltre, toccando l'immaginario collettivo e la struttura stessa dell'anti-eroe solipsistico, un archetipo che dal samurai errante di Kurosawa si è propagato fino ai pistoleri del Vecchio West e ai mercenari delle metropoli contemporanee.
La storia è incentrata sulla figura di un solitario samurai, Sanjuro (interpretato dall’attore feticcio di Kurosawa, Toshiro Mifune), il quale nel Giappone del XVII secolo giunge ad un villaggio in cui è in atto una guerra senza quartiere tra due potenti famiglie locali. Mifune non si limita a interpretare Sanjuro; egli è Sanjuro, con la sua andatura indolente ma carica di potenziale esplosivo, la sua espressione sardonica, e la capacità di comunicare un intero universo di cinismo e, sorprendentemente, di una sotterranea moralità, con un solo sguardo. La sua performance è un tour de force di presenza scenica, un monolite di compostezza e furbizia che si muove in un mondo in preda al caos. Il suo aspetto trasandato e la sua apparente indifferenza celano una mente acuta e una tempra ferrea, rendendolo un personaggio complesso e infinitamente affascinante.
L’uomo sfrutterà l’odio dei due clan per divenire il trait d’union insanguinato tra i due contendenti, facendo leva sulla brama di potere e sulla corruttibilità degli uomini. La guerra tra i clan Seibei e Ushitora non è solo uno sfondo per il virtuosismo della spada, ma una lente d'ingrandimento spietata sulla corruzione endemica che affliggeva non solo il Giappone feudale, ma la natura umana stessa. Kurosawa, con la sua solita acutezza, dipinge un microcosmo di avidità e violenza gratuita, dove ogni gesto è dettato dalla sete di potere e dal terrore. Questo villaggio, un tempo prospero e ora un guscio desolato, diventa la metafora di una società in disfacimento, dove l'ordine è un ricordo sbiadito e la legge è dettata dalla lama più affilata. Sanjuro, pur operando in questa palude morale, emerge non come un redentore, ma come un catalizzatore che, attraverso il caos, ristabilisce un suo peculiare equilibrio.
La sua strategia in effetti è molto semplice: farsi pagare dall’una e dall’altra fazione e far credere ad ambedue di essere un sicario fedele ora all’una e ora all’altra fazione, a seconda della contingenza. Questa tattica, apparentemente amorale, è la chiave della sua sopravvivenza e, in ultima analisi, della sua sottile forma di giustizia. Sanjuro non è un eroe nel senso convenzionale del termine; è un opportunista che, sfruttando le debolezze altrui, riesce a eliminare i parassiti che affliggono il villaggio. La sua moralità è pragmatica, quasi esistenzialista, e si manifesta non attraverso nobili proclami, ma attraverso azioni decisive e spesso brutali. Egli è un uomo del suo tempo, un ronin senza padrone, la cui unica bussola è un codice personale di sopravvivenza e di disprezzo per la codardia e la meschinità.
Tantissimi i rimandi di quest’opera che troviamo nel cinema di Sergio Leone: in “Per un Pugno di Dollari” Clint Eastwood tiene sempre una mano sotto al poncho, proprio come Sanjuro dentro al suo kimono, inoltre sia il samurai che il pistolero tengono spesso uno stecchino in bocca. Ma l'influenza di Kurosawa su Leone trascende il mero dato visivo, trasformando il plagio dichiarato in un omaggio sincero che ha ridefinito un genere. È nell'architettura narrativa, nella costruzione del personaggio enigmatico che giunge dal nulla per sconvolgere gli equilibri di un microcosmo preesistente, nella gestione della tensione che esplode in duelli rapidi e brutali, che si annida il vero debito. Il "pistolero senza nome" di Eastwood è, a tutti gli effetti, un Sanjuro traslato, un ronin delle pianure americane, la cui moralità ambigua è solo parzialmente celata da un pragmatismo brutale. Leone non si è limitato a replicare; ha distillato l'essenza di Kurosawa, filtrandola attraverso la lente del cinema americano e la sua estetica barocca e operistica. Del resto, lo stesso Kurosawa era un ammiratore di John Ford, creando così un affascinante circolo di ispirazione che ha unito Oriente e Occidente.
Insomma è lampante quanto Leone sia debitore verso questo film e quanto profondo il suo omaggio sia stato al cinema di Kurosawa. Yojimbo è un film denso di azione in cui linearità narrativa e gusto iconografico appaiono inscindibili contribuendo a creare un riferimento nel cinema d’azione contemporaneo. La linearità narrativa di Yojimbo non ne sminuisce la complessità, bensì ne esalta la potenza. Kurosawa, maestro della messa in scena, orchestra ogni inquadratura con una precisione quasi pittorica, trasformando paesaggi spogli in arene drammatiche e volti marcati in mappe di sofferenza e determinazione. La cinepresa si muove con una fluidità incalzante, catturando l'energia brutale degli scontri ma anche la tensione latente negli sguardi. Il vento che solleva la polvere, i cieli cupi, i gesti rapidi e decisivi: tutto contribuisce a forgiare un linguaggio cinematografico che diventerà un vademecum per intere generazioni di registi, da Sam Peckinpah a Quentin Tarantino (che ha dichiarato di aver attinto a piene mani dal dinamismo e dalla brutalità stilizzata di Kurosawa), fino ai più recenti esponenti del cinema d'azione coreano, tutti in qualche modo debitori all'ardore visivo e alla concisione narrativa di Kurosawa.
Un film a cui non si può rinunciare neppure per comprendere a pieno l’evoluzione creativa degli odierni action movies che sono tutti un po’ figli di questa storia, e che continuano a riverberare la sua essenza di eroe solitario e cinico, un faro nella nebbia dell'ambiguità morale.
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