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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La sottile linea blu

1988

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Un frullato al cioccolato volteggia nell'aria notturna, una parabola innaturale e rallentata che traccia un arco di distruzione contro il nero pece di un'autostrada texana. Questa immagine, così banale e al contempo così apocalittica, non è solo l'incipit de La sottile linea blu, ma il manifesto programmatico di Errol Morris: la realtà, se osservata abbastanza a lungo e con la giusta lente, si scompone in una serie di dettagli assurdi e significanti, un balletto grottesco di cause ed effetti la cui logica ci sfugge. Il film di Morris non è un documentario nel senso convenzionale del termine; è un'autopsia della narrazione, un'indagine filosofica mascherata da true crime, un thriller epistemologico che utilizza gli stilemi del cinema noir per interrogare non tanto chi ha premuto il grilletto, ma come la verità viene costruita, manipolata e, infine, dissolta.

Siamo a Dallas, nel 1976. Un poliziotto, Robert Wood, viene assassinato durante un controllo stradale di routine. Le indagini, sbrigative e inquinate da un'ansia quasi tribale di trovare un colpevole, puntano su Randall Dale Adams, un ventottenne dell'Ohio di passaggio in città. Il testimone chiave è David Harris, un sedicenne dal passato travagliato che era con Adams quella notte. La trama sembra uscita da un romanzo di James M. Cain: un'auto rubata, una notte di birra e fumo, una pistola sotto il sedile. Ma Morris, come un entomologo ostinato, non si accontenta della superficie. Inizia a sezionare le testimonianze, a riesaminare i fatti, e scopre che la "verità" processuale è un castello di carte tenuto insieme da menzogne, omissioni e un disperato bisogno collettivo di una narrazione coerente, anche se falsa.

L'approccio di Morris è rivoluzionario e consapevolmente anti-documentaristico. Laddove il cinema-verità di un Frederick Wiseman o dei fratelli Maysles cercava di rendersi invisibile per catturare una realtà non mediata, Morris esibisce la propria mediazione in modo sfrontato, quasi demiurgico. Le sue celebri "ricostruzioni", all'epoca criticate come una violazione del codice deontologico del documentarista, sono in realtà il cuore pulsante del film. Non sono presentate come la verità oggettiva, ma come allucinazioni stilizzate, frammenti di un noir sognato da Raymond Chandler e fotografato da Gordon Willis. Le luci al neon sanguinano sull'asfalto bagnato, i volti sono maschere d'ombra, ogni dettaglio – un orologio al polso, i fari di un'auto – è investito di un peso simbolico schiacciante. Queste scene non ci dicono "ecco cosa è successo", ma piuttosto "ecco come un testimone ricorda che sia successo", o "ecco come un avvocato vuole che noi immaginiamo sia successo". Sono la visualizzazione della fallibilità della memoria, la messa in scena di narrazioni soggettive e auto-assolutorie.

In questo, La sottile linea blu è il figlio cinematografico più diretto di Rashomon. Come nel capolavoro di Kurosawa, un singolo evento traumatico viene rifratto attraverso il prisma di molteplici testimonianze, ognuna delle quali deforma la realtà per adattarla ai propri interessi. Ma se Kurosawa arrivava a una conclusione quasi nichilista sull'impossibilità di conoscere la verità, Morris è un investigatore postmoderno con una missione. Crede che, setacciando le bugie, si possa arrivare non forse alla Verità assoluta, ma a una verità più vera, a una versione dei fatti meno inquinata. Il suo metodo è un'esegesi testuale applicata alla vita reale. Intervista i protagonisti – Adams, Harris, avvocati, giudici, testimoni oculari – usando il suo famigerato "Interrotron", un dispositivo che permette all'intervistato di guardare Morris e, simultaneamente, la lente della telecamera. Il risultato è un confronto diretto, quasi insostenibile, con lo spettatore. Siamo noi la giuria, costretti a scrutare in questi volti, a decifrare le crepe nelle loro storie, a giudicare il peso delle loro parole.

A sostenere questa architettura complessa interviene la partitura di Philip Glass, un elemento non accessorio ma strutturale. La sua musica minimalista, con i suoi arpeggi ripetitivi e le sue progressioni ipnotiche, non è un semplice commento sonoro, ma il motore ontologico del film. È il suono dell'ossessione, il ritmo pulsante di un'indagine che gira in tondo, tornando sempre sugli stessi punti, sugli stessi dettagli, finché la ripetizione non fa emergere una crepa, un'incongruenza. La musica di Glass trasforma un'inchiesta giudiziaria in un rito, un mantra processuale che mira a smantellare la logica fallace del sistema.

Il film si inserisce in una tradizione squisitamente americana, quella del "non-fiction novel" inaugurato da Truman Capote con A sangue freddo. Come Capote, Morris prende un fatto di cronaca nera e lo eleva a tragedia greca, a parabola sulla natura del male e sulla fragilità delle istituzioni umane. Ma mentre Capote si insinuava nella psicologia dei suoi personaggi, Morris si concentra sulla meccanica del racconto. Il suo vero protagonista non è Randall Adams, ma la Storia stessa, intesa come costrutto narrativo. Il sistema giudiziario del Texas non ha condannato un uomo, ha convalidato una sceneggiatura. Una sceneggiatura che prevedeva un "cattivo" credibile (Adams, un outsider senza legami) e un "testimone" redento (Harris, un ragazzo del posto, nonostante i suoi precedenti). La verità era un dettaglio irrilevante di fronte alla necessità di chiudere il caso con un finale soddisfacente.

In questo senso, La sottile linea blu è un'opera profondamente kafkiana. Randall Adams è un Josef K. catapultato nel sud degli Stati Uniti, intrappolato in un labirinto burocratico le cui regole sono arbitrarie e incomprensibili. La sua innocenza è impotente di fronte a un sistema che non cerca la verità, ma l'auto-conservazione. E come in un racconto di Borges, il film esplora il modo in cui una finzione, se ripetuta abbastanza volte e con sufficiente autorità, può acquisire il peso e le conseguenze della realtà. La "sottile linea blu" del titolo non è solo quella che separa la società dal caos, come vorrebbe la retorica della polizia, ma la linea ancora più sottile che separa i fatti dalla loro interpretazione, la realtà dal racconto che ce ne facciamo.

L'impatto extracinematografico del film è storia: un anno dopo la sua uscita, la condanna di Randall Adams fu annullata e lui fu rilasciato dopo dodici anni di prigione, molti dei quali trascorsi nel braccio della morte. È uno dei rarissimi casi in cui un'opera d'arte ha letteralmente piegato la realtà, intervenendo sul corso della giustizia. Ma il colpo di genio finale di Morris è squisitamente meta-testuale. La confessione definitiva di David Harris, il momento catartico che risolve l'enigma, non ci viene mostrata. La sentiamo solo, registrata su un nastro magnetico, una voce disincarnata che ammette l'omicidio quasi con noncuranza. In un film che ha fatto della stilizzazione visiva la sua cifra, la verità ultima è anti-cinematografica, nuda, priva di immagine. È un'ammissione geniale: dopo averci mostrato quanto le immagini possano mentire, Morris ci consegna la verità attraverso il mezzo più astratto e meno seducente, la sola parola.

La sottile linea blu rimane un unicum, un oggetto cinematografico che è allo stesso tempo un saggio di filosofia, un pezzo di giornalismo investigativo e un'opera d'arte espressionista. Ha ridefinito le possibilità del documentario, dimostrando che la soggettività e l'artificio, se usati con rigore intellettuale, possono diventare strumenti di verità più potenti di qualsiasi pretesa di oggettività. È un bisturi epistemologico che incide la pelle della realtà per mostrare il groviglio di narrazioni, pregiudizi e menzogne che si nasconde sotto. Un monumento vertiginoso non solo a un errore giudiziario, ma alla fragilità fondamentale di ogni nostra certezza.

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