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La Stangata

1973

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Hill, dopo il successo straripante di Butch Cassidy, non esita neppure un istante a richiamare sul suo set una delle coppie cinematografiche più carismatiche e iconiche di tutti i tempi: Paul Newman e Robert Redford. Lungi dall'essere una mera riproposizione di un fortunato sodalizio, la loro alchimia in La Stangata (The Sting) si eleva a vertice di un'intesa artistica quasi telepatica, fondendo la gravitas carismatica di Newman con l'energia più irruenta e l'innocenza calcolata di Redford. Se in Butch Cassidy erano briganti malinconici in fuga da un'epoca che li rifiutava, qui si reinventano in figure di astuti illusionisti, maestri del travestimento e della manipolazione, perfetti per incarnare lo spirito di un'America in bilico tra disillusione e la perpetua speranza di una "grande truffa".

Nella Chicago degli anni Trenta, città simbolo di proibizionismo, criminalità organizzata e sfrenato capitalismo, un piccolo truffatore, Johnny Hooker (Redford), cerca vendetta contro un boss spietato, Doyle Lonnegan (Robert Shaw), reo di aver ucciso il suo partner. Un movente classico, la vendetta, ma che si trasforma immediatamente in un pretesto per orchestrare una delle più ingegnose e complesse macchinazioni mai portate sul grande schermo. Hooker, con l’aiuto di una vecchia volpe della mala, Henry Gondorff (Newman), un fuoriclasse del mestiere in cerca di riscatto, organizzerà contro Lonnegan una gigantesca messa in scena, un'opera d'arte del raggiro concepita per truffarlo su scala monumentale.

Insieme, Gondorff e Hooker allestiranno una finta sala scommesse in un vero e proprio "meta-set", un set nel set in cui la recitazione e la finzione non si limitano a intrecciarsi con la vita reale, ma ne divengono parte integrante e ineludibile. È qui che il genio di George Roy Hill e dello sceneggiatore David S. Ward raggiunge il suo apice concettuale. Il film non si limita a raccontare una truffa; esso stesso è una truffa abilmente orchestrata ai danni dello spettatore. Hill si gioca un compromesso narrativo audace e brillante con il pubblico, nascondendo quasi sempre le vere intenzioni dei truffatori. Nasce così una sorta di gioco di specchi vertiginoso, un meccanismo brechtiano rovesciato, per il quale anche chi guarda cade vittima della truffa, godendo, paradossalmente, della propria implicazione nell'inganno. Non siamo semplici osservatori, ma complici involontari, o forse, persino, gli ignari "gonzi" di un gioco di prestigio cinematografico che si svela solo all'ultimo istante. Questa dinamica rende La Stangata non solo un esercizio di stile, ma una profonda riflessione sulla natura della percezione, della fiducia e dell'inganno.

Pregevoli, anzi, sbalorditive, le ricostruzioni dell’epoca, capaci di trasportare lo spettatore in una Chicago vivida e stilizzata, intrisa di un'eleganza malavitosa e di una patina di nostalgia. Ogni dettaglio, dagli abiti impeccabili di Edith Head (costumista leggendaria) alle atmosfere fumose e decadenti dei bar clandestini, contribuisce a creare un'immersione totale in un decennio affascinante e contraddittorio. La sceneggiatura, frutto del lavoro certosino di David S. Ward, non si limita a sostenere l’impianto narrativo; lo eleva a un livello di sofisticazione quasi letteraria, orchestrando una sinfonia di colpi di scena, dialoghi taglienti e personaggi memorabili. La sua precisione chirurgica nel costruire l'architettura complessa della truffa, senza mai perdere il filo dell'intrattenimento, è un manuale di scrittura cinematografica. La struttura episodica, con le sue didascalie in stile "capitolo" che annunciano le varie fasi del piano, rafforza il senso di una narrazione calibrata e meticolosa, quasi un'opera teatrale in divenire.

Menzione speciale, doverosa, per la regia di George Roy Hill che non solo confezionò un film destinato a fare incetta di Oscar, ben sette, inclusi i più prestigiosi per Miglior Film e Miglior Regia, ma che lo intessé con un ritmo incalzante e una leggerezza apparente che cela una maestria tecnica impressionante. La sua capacità di equilibrare suspense, commedia e dramma, avvalendosi di un montaggio impeccabile e di una colonna sonora indimenticabile – le melodie ragtime di Scott Joplin, riarrangiate da Marvin Hamlisch (altro Oscar vinto), che donano al film un'identità sonora unica e gioiosa, quasi una musica da circo per un inganno raffinato – è il segno di un autore completo. Hill non si limita a dirigere, ma orchestra un'intera sinfonia di illusioni, performance e aspettative, lasciando un'eredità duratura non solo nel genere del "con-movie", ma nell'immaginario collettivo, consolidando La Stangata come un capolavoro di intelligenza narrativa e puro divertimento cinematografico. È la quintessenza del cinema come macchina di sogno, capace di farci credere all'impossibile, persino al piacere di essere impeccabilmente ingannati.

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