La tomba delle lucciole
1988
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Regista
Un film non dovrebbe iniziare dalla fine. Eppure La Tomba delle Lucciole lo fa, con una spietatezza che è dichiarazione d’intenti e, al contempo, un atto di macabra pietà. "La notte del 21 settembre 1945, io morii". La voce di Seita, ormai uno spettro tra gli spettri che infestano la stazione di Sannomiya, ci nega fin da subito il lusso della speranza. Non assisteremo a una lotta per la sopravvivenza con un esito incerto; assisteremo a un requiem. Isao Takahata, il meno sognatore e il più implacabilmente terreno dei maestri dello Studio Ghibli, non ci invita a un viaggio, ma a una veglia funebre.
Distribuito in Giappone in un doppio, schizofrenico programma con Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki, questo film rappresenta l'altra faccia della medaglia Ghibli, il suo gemello oscuro, la sua necessaria e terribile controparte. Se Totoro è un'immersione panteistica e taumaturgica nell'innocenza infantile che trova rifugio nella magia della natura per elaborare un trauma, La Tomba delle Lucciole è la cronaca della sistematica, inesorabile obliterazione di quella stessa innocenza da parte della storia e della fallibilità umana. L'uno è un'ode alla resilienza dello spirito, l'altro un'elegia per la sua fragilità. Vedere i due film di seguito, come inteso in origine, non è un'esperienza cinematografica: è una vivisezione dell'anima, un esperimento di crudele dissonanza cognitiva che espone l'intero spettro emotivo di cui è capace l'animazione.
Takahata, intellettuale e studioso di letteratura francese, ha sempre incarnato l'anima realista e documentaristica dello studio, il contraltare perfetto alla fantasia sfrenata di Miyazaki. E in nessun'altra sua opera questo approccio emerge con la lucidità annichilente che troviamo qui. La Tomba delle Lucciole è, a tutti gli effetti, un'opera neorealista travestita da anime. Se si spogliasse il film dei suoi colori pastello e della fluidità del disegno a mano, la sua ossatura narrativa e tematica sarebbe perfettamente sovrapponibile a quella di un Vittorio De Sica. Seita e la piccola Setsuko non sono poi così distanti dal Ricci e dal piccolo Bruno di Ladri di biciclette; sono figure marginali, espulse dal tessuto sociale, che vagano in un paesaggio urbano e morale in rovina, aggrappati a un legame familiare che è l'ultimo baluardo contro la disintegrazione totale.
Come nel neorealismo, la guerra non è il protagonista, ma il catalizzatore che scoperchia l'ipocrisia e l'egoismo latenti nella società. Non sono le bombe americane a uccidere, in ultima istanza, Seita e Setsuko. La loro fine è decretata dall'indifferenza della zia, dalla freddezza dei passanti, dal contadino che li accusa di furto, da un sistema sociale che, sotto pressione, si ritrae nel più spietato darwinismo. Takahata, basandosi sull'omonimo romanzo semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka (scritto come atto di espiazione per la morte della propria sorella in circostanze simili), non punta il dito contro un nemico esterno. La sua è un'analisi più profonda e universale del collasso della comunità. La vera tragedia non è la pioggia di fuoco dal cielo, ma il gelo che si insinua nei cuori a terra.
Ed è qui che il film ascende da semplice dramma a tragedia greca in piena regola. Seita non è solo una vittima; è un eroe tragico, la cui hamartia, il suo difetto fatale, è un orgoglio tanto infantile quanto incrollabile. È il suo rifiuto di chinare il capo, di scusarsi con la zia, di rientrare in un sistema che percepisce come umiliante, a condurre lui e la sorellina sulla via dell'isolamento e della morte. La sua decisione di creare un mondo a parte per sé e Setsuko nel rifugio abbandonato è, inizialmente, un atto di amore e di sfida, la costruzione di un'utopia in miniatura. Ma quell'utopia si rivela presto una trappola mortale, un idillio fondato sull'ignoranza e sostenuto da furti sempre più disperati. Seita gioca a fare l'adulto senza averne gli strumenti, e il suo gioco ha conseguenze irrevocabili. In questo, la sua figura acquista una complessità straziante: non è un santo, ma un ragazzo spezzato che, nel tentativo di proteggere l'ultimo frammento del suo mondo, finisce per distruggerlo.
La potenza estetica del film risiede in un paradosso visivo che è quasi insostenibile. La direzione artistica mantiene una bellezza lirica, quasi pastorale, anche nel cuore dell'orrore. È un Goya dipinto con i pastelli di un Renoir. Le lucciole, simbolo polisemico che dà il titolo all'opera, ne sono l'emblema perfetto. Sono la bellezza effimera di una notte d'estate, la luce tremolante della vita di Setsuko, la rappresentazione visiva delle anime dei defunti, ma sono anche, metaforicamente, le scintille degli ordigni incendiari che cadono dal cielo, portatrici di una morte altrettanto fugace e impersonale. La scena in cui Setsuko seppellisce le lucciole morte, chiedendo al fratello perché debbano morire così presto, è un dialogo meta-testuale di una potenza devastatrice: la bambina sta inconsapevolmente officiando il funerale di sua madre e, profeticamente, il proprio.
Ogni oggetto, ogni dettaglio, è intriso di un peso simbolico schiacciante. La scatoletta di latta delle caramelle Sakuma Drops è il MacGuffin emotivo del film. All'inizio è un tesoro, fonte di gioia infantile e strumento di conforto; poi diventa un contenitore d'acqua, poi un'urna improvvisata per le ceneri di Setsuko, e infine, nella scena d'apertura, un oggetto vuoto e arrugginito scagliato via con noncuranza, da cui si libera lo spirito della bambina. Quel piccolo oggetto traccia l'intera parabola dalla dolcezza dell'innocenza alla polvere della morte. È un feticcio proustiano alla rovescia, dove il ricordo non evoca il passato felice, ma il suo completo annientamento.
A differenza di molti film di guerra, La Tomba delle Lucciole nega allo spettatore qualsiasi forma di catarsi. Non c'è un messaggio edificante, non c'è la celebrazione del coraggio, non c'è la condanna esplicita di una fazione. L'opera di Takahata si posiziona in quel territorio scomodo e rarefatto del cinema che non vuole insegnare, ma testimoniare. Come Come and See di Elem Klimov, altro viaggio allucinatorio nell'inferno della guerra visto con gli occhi di un ragazzo, il film non offre risposte né consolazione. Il suo scopo non è essere un film "contro la guerra" nel senso propagandistico del termine; è un film contro l'oblio. La sua etica risiede nella sua estetica, nella scelta di guardare l'orrore senza filtri, senza mai distogliere lo sguardo, costringendoci a fare altrettanto.
Quando i titoli di coda scorrono sul buio, non c'è musica salvifica, solo un silenzio carico del peso di ciò che abbiamo visto. I fantasmi di Seita e Setsuko, seduti su una panchina che domina la Kobe moderna, scintillante di luci elettriche, non sono lì per perseguitarci. Sono lì come un monito silenzioso. Non giudicano, osservano. Ci ricordano che sotto la patina fragile della nostra civiltà, sotto le luci che abbiamo scambiato per stelle, giacciono innumerevoli tombe di lucciole, in attesa che qualcuno si fermi abbastanza a lungo per ricordarne il bagliore. E in questo, La Tomba delle Lucciole trascende la sua natura di film d'animazione, di film di guerra, di film giapponese, per diventare un monumento universale e senza tempo alla più dolorosa delle verità: la più grande tragedia umana non è la morte, ma essere dimenticati.
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