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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

La vergogna

1968

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La guerra, nel cinema di Ingmar Bergman, non è mai un evento, ma una condizione dell’anima. Non un’esplosione, ma una lenta, inesorabile corrosione. In La vergogna (Skammen, 1968), il Maestro svedese spoglia il conflitto armato di ogni epica, di ogni retorica e di ogni possibile catarsi, per orchestrare una disamina quasi clinica, e per questo terrificante, della disintegrazione dell'umano. Il film si presenta come una scheggia impazzita conficcata nel cuore del suo celebre “cinema da camera”, un’opera che espande le tensioni psicologiche di una coppia fino a farle coincidere con il collasso di un'intera civiltà. È l'apocalisse distillata in un microcosmo domestico, un dramma chekcoviano il cui giardino dei ciliegi viene improvvisamente squarciato dal napalm.

Jan ed Eva Rosenberg (interpretati da un Max von Sydow e una Liv Ullmann che raggiungono vette di simbiosi attoriale quasi insostenibili) sono due violinisti. Due artisti. Hanno scelto di ritirarsi su un'isola remota, Fårö, la stessa isola-rifugio di Bergman, per sfuggire a una guerra civile che sentono lontana, un rumore di fondo nel notiziario. La loro vita è un idillio fragile, punteggiato da piccole frustrazioni borghesi: le difficoltà economiche, i desideri inespressi di maternità, le nevrosi di lui, la pragmatica rassegnazione di lei. Bergman è magistrale nel costruire questa bolla di normalità, cullandoci in un bianco e nero sgranato ma luminoso, quasi pastorale, per poi farla scoppiare con una violenza improvvisa e assordante. L'arrivo della guerra sull'isola non è un'invasione spettacolare alla Spielberg; è un'intrusione sgraziata, brutale, una violazione dello spazio intimo. Il rombo degli aerei, le esplosioni sorde, i soldati che irrompono in casa senza preavviso: la Storia bussa alla porta non per chiedere permesso, ma per sfondarla.

Qui risiede il primo, geniale scarto narrativo. La vergogna non è un film sulla guerra, ma su cosa la guerra fa alle persone comuni, a coloro che si credono "apolitici", che si illudono di poter restare neutrali. Jan ed Eva non sono eroi né carnefici. Sono semplicemente inadeguati. La loro arte, la musica, il simbolo stesso della cultura e della sensibilità umana, diventa la prima, inutile vittima. I loro violini giacciono inerti nelle custodie, reliquie di un mondo che non esiste più. In questo, Bergman compie un atto di spietata autocritica, un meta-commento sul ruolo (o sull'inutilità) dell'arte di fronte all'orrore. Cosa può un adagio di Bach contro un fucile d'assalto? La risposta del film è un silenzio agghiacciante.

La traiettoria dei due protagonisti è una discesa agli inferi speculare e complementare. Jan, l'artista ipocondriaco e sensibile, subisce una metamorfosi terrificante. La sua debolezza iniziale si trasforma in un pragmatismo glaciale, una forma di sopravvivenza che lo svuota di ogni empatia. La scena cruciale è quella in cui, dopo aver scoperto del denaro nascosto da un soldato disertore, lo uccide a sangue freddo. Non è un atto di rabbia o di vendetta, ma un calcolo. Un gesto meccanico, quasi burocratico. Max von Sydow scolpisce questa trasformazione sul suo volto, passando da una maschera di perenne ansia a un'impassibilità che fa più paura di qualsiasi urlo. L'artista è morto, è nato il sopravvissuto, e la sua sopravvivenza è una condanna a morte per la sua anima.

Eva, al contrario, parte da una posizione di forza, di resilienza. È lei che tiene insieme i pezzi della loro vita. Ma è proprio la sua bussola morale a portarla alla rovina. Assiste impotente alla disumanizzazione del marito, subisce la violenza e l'umiliazione, e si ritrova complice di un sistema di compromessi che la divora dall'interno. Il suo percorso è un progressivo scollamento dalla realtà, magnificamente rappresentato dalla sequenza onirica, un inserto quasi surrealista alla Buñuel, in cui sogna una figlia bellissima, un torrente limpido e delle rose che prendono fuoco. È il suo inconscio che urla, che cerca di preservare un'immagine di purezza e bellezza mentre il mondo esterno, e quello interiore, vanno in cenere. La performance di Liv Ullmann è di una trasparenza emotiva devastante; i suoi occhi diventano lo specchio in cui si riflette la vergogna del titolo.

La cifra stilistica di Bergman, coadiuvato dal genio di Sven Nykvist alla fotografia, è essenziale e brutale. Il bianco e nero perde ogni sfumatura lirica per diventare un documento crudo, quasi neorealista, dell'orrore. Le scene di combattimento sono girate con la macchina a mano, in modo caotico, sporco, privo di qualsiasi coreografia estetica. La violenza non è mai spettacolarizzata; è goffa, stupida, patetica. Ricorda più le crude incisioni dei Disastri della guerra di Goya che le battaglie composte di un Kurosawa. Il sonoro, privo di colonna sonora extradiegetica, è un tappeto di suoni reali e disturbanti: il vento, lo scoppiettio del fuoco, le urla, e soprattutto, i silenzi. Silenzi carichi di tensione, di parole non dette, di un vuoto che si allarga tra i due protagonisti fino a diventare un abisso incolmabile.

Realizzato nel 1968, in piena guerra del Vietnam, La vergogna è una potentissima allegoria che trascende il contesto specifico per parlare di ogni conflitto, di ogni epoca. Bergman non prende partito, non ci dice chi sono i "buoni" e chi i "cattivi". I soldati di entrambe le fazioni sono intercambiabili nella loro brutalità e nella loro disperazione. L'unico nemico è la guerra stessa, intesa come un agente chimico che dissolve i legami sociali, morali e affettivi. Il film dialoga idealmente con l'esistenzialismo di Camus de La Peste, dove una catastrofe esterna funge da catalizzatore per rivelare la vera natura degli individui. Ma se in Camus c'è ancora spazio per la solidarietà e l'eroismo del Dottor Rieux, in Bergman sembra non esserci alcuna via di salvezza. L'unica lezione che la guerra insegna è come smettere di essere umani.

La "vergogna" non è solo quella delle atrocità commesse, ma la vergogna più profonda e intima di essere sopravvissuti. La vergogna di aver scoperto di cosa si è capaci per restare in vita. La vergogna di guardare l'altro, il compagno di una vita, e non riconoscerlo più, vedendo in lui solo lo specchio della propria degradazione. È la vergogna di un'umanità che si scopre nuda, privata delle sue sovrastrutture culturali e morali, ridotta a un istinto primordiale.

Il finale è una delle conclusioni più desolate e potenti della storia del cinema. Jan ed Eva, insieme ad altri profughi, si trovano su una barca alla deriva, in un mare disseminato di cadaveri galleggianti. Non c'è terra in vista. Non c'è speranza. L'ultima conversazione tra i due è frammentaria, quasi afasica. Eva racconta il suo sogno, l'ultimo brandello di un mondo interiore ormai distrutto. Jan non ascolta. La barca vaga senza meta. È un'immagine che evoca il teatro dell'assurdo di Beckett: sono i Vladimir e Estragon di Aspettando Godot che hanno smesso di aspettare, perché non c'è più nulla da attendere. La macchina da presa si allontana, lasciandoli persi in un'immensità acquatica che non è promessa di rinascita, ma tomba liquida. Un'ellissi finale che non offre risposte, ma ci abbandona nello stesso vuoto esistenziale dei suoi protagonisti. La vergogna è un'opera spietata, necessaria, un monito universale sulla fragilità della nostra civiltà e sulla facilità con cui la bestia, che credevamo addomesticata, può riprendere il sopravvento. Non è un film da "vedere", ma un'esperienza da sopportare, che lascia addosso una cicatrice indelebile.

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