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L'Albero degli Zoccoli

1978

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Ermanno Olmi, nella sua opera forse più rappresentativa e certamente la più celebrata, paga un omaggio commosso e profondo alle sue origini contadine e ai luoghi dell'infanzia, tessendo le trame di una saga familiare che si dipana con la lenta maestosità di un affresco vivente nelle campagne di Bergamo sul finire del secolo scorso. Un'epoca in cui la modernità era ancora un lontano ronzio, e la vita rurale, seppur intrisa di fatica e subordinazione, conservava una sua integrità ancestrale.

Cinque famiglie di contadini vivono sotto lo stesso tetto, in una grande cascina isolata, incarnando un microcosmo di resilienza e interdipendenza. Il loro quotidiano è scandito dal lavoro estenuante per conto del padrone delle terre circostanti, un'esistenza retta dal sistema della mezzadria che, per quanto oppressivo, imponeva anche un ritmo di vita in sintonia con i cicli naturali e una solidarietà necessaria alla sopravvivenza.

Si intrecciano storie e piccoli, eppure universali, drammi tra questa gente umile, ma forgiata da una forza d'animo e un orgoglio indomiti. Sono vicende che sfiorano l'infanzia, l'amore nascente, la perdita, la malattia, le piccole ribellioni silenziose, tutte affrontate con una dignità che eleva il dolore a forma d'arte.

Il film prende il suo titolo dall’albero avito, un gelso maestoso che diviene quasi un personaggio muto e sapiente, da cui uno dei contadini, con un gesto di amore paterno e una sottile, quasi inconscia, sfida al destino imposto, intaglia gli zoccoli per il figlio maggiore, affinché possa affrontare il lungo cammino verso la scuola senza logorare le suole delle scarpe. Questo atto, apparentemente innocuo, di prelievo da una risorsa non sua, sarà il catalizzatore della tragica epifania, il motivo per cui la famiglia verrà scacciata dalla propria casa, svelando la brutale logica del potere e la precarietà di un'esistenza appesa al filo della benevolenza padronale. È un monito amaro sulla fragilità dell'autonomia e sul prezzo della conoscenza, un incidente che racchiude in sé il dramma eterno della lotta di classe e la dignità calpestata.

"L'Albero degli Zoccoli" si rivela così un film epico non per la grandezza degli eventi narrati, ma per la monumentale profondità con cui indaga l'animo umano e i valori che ne costituiscono la linfa vitale: dignità inalienabile, umiltà come via alla saggezza, un altissimo senso del dovere verso la terra e la comunità, la sacralità del lavoro manuale e quella saggezza popolare tramandata di generazione in generazione che sola permette di decifrare i segni del mondo. Ogni fotogramma è intriso di un rispetto quasi reverenziale per questa cultura contadina, per il suo sapere antico e la sua profonda spiritualità, anche quando non esplicitamente religiosa.

Con Olmi, si apre una nuova e personalissima stagione del neorealismo in Italia, o forse sarebbe più appropriato definirla un "neorealismo dell'anima". Le sue opere, e "L'Albero degli Zoccoli" ne è l'esempio più fulgido, ripartono dalla lezione di De Sica e Rossellini, ma la sublimano, esaltandone la cifra estetica laddove questa incontri le tradizioni popolari, le antiche usanze contadine di una terra che, proprio in quel finire di secolo, iniziava il suo lento ma inesorabile cammino verso una modernità che avrebbe dissolto ogni identità rurale. Olmi sceglie di filmare la realtà con una verità cruda ma intrisa di poesia, utilizzando attori non professionisti – veri contadini della zona – e girando per un intero anno solare per catturare le sfumature di ogni stagione, infondendo al racconto un'autenticità quasi etnografica, un ritmo lento e meditativo che rispecchia il respiro della terra stessa. L'assenza di una colonna sonora invadente, lasciando spazio ai suoni diegetici della natura e del lavoro, contribuisce a questa immersione totale.

C’è una sorta di velo nostalgico, mai melenso ma intriso di profonda malinconia, dietro le sue potenti raffigurazioni; una compartecipazione quasi viscerale ai valori che hanno fondato e sostenuto un’intera cultura, un senso di appartenenza a quel mondo che non può essere ignorato, ma che anzi invita alla riflessione sulla perdita. È la nostalgia per un'armonia perduta, un monito sulla civiltà contadina che, pur nella sua durezza, offriva un radicamento e un senso al quotidiano che il "progresso" spesso ha smantellato senza sostituire.

Il film è stato vincitore della Palma d'Oro all’edizione di Cannes del 1978, trovando la grande consacrazione internazionale che merita e affermandosi come un capolavoro senza tempo, un patrimonio non solo del cinema italiano ma dell'umanità intera. La sua risonanza è stata globale, apprezzata per la sua universalità nel raccontare la condizione umana al di là dei confini geografici e temporali.

È un’opera certamente impegnativa, non solo per la sua durata (oltre tre ore), ma per il suo ritmo contemplativo che richiede allo spettatore una disponibilità all'ascolto e all'immersione. Eppure, essa rivela una verve poetica di rara intensità: una poesia che sale dall’umiltà delle piccole cose, dalla magnificenza dei gesti quotidiani, dalla profonda sapienza racchiusa in dettagli apparentemente insignificanti. Emblematico è l'episodio – una vera e propria gemma cinematografica – del nonno che spiega alla nipotina come si devono piantare i giovani germogli di pomodoro: dissodando il terreno con le mani callose, scavandovi piccoli buchi con la punta delle dita, irrorando i germogli con poche gocce d’acqua attinte da un'antica brocca. In quel gesto semplice si condensa un'intera filosofia di vita: il rispetto per la natura, la trasmissione del sapere ancestrale, l'amore per la terra come fonte di vita e di dignità. È in queste scene che "L'Albero degli Zoccoli" trascende la mera rappresentazione per divenire una meditazione sulla ciclicità dell'esistenza, sulla sacralità della vita e sull'ininterrotto flusso del tempo.

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