L'altro uomo
1951
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Regista
Nella serena e immacolata porcellana della provincia americana del New England, una crepa sottile, quasi invisibile, comincia a diramarsi. Non è un sisma, non un boato, ma un ronzio sordo, la vibrazione di un ingranaggio fuori posto nel cuore di un meccanismo altrimenti perfetto. Questa crepa è L'altro uomo (The Stranger), e la mano che la incide, con la precisione di un orologiaio e la furia di un demiurgo caduto, è quella di Orson Welles. Il film, datato 1946, è una seduta spiritica tenuta alla luce abbagliante del sole, un esorcismo pubblico compiuto non nelle tenebre di un castello gotico, ma tra le staccionate bianche e le partite di bridge di Harper, Connecticut, l'Eden postbellico che l'America anelava a essere.
Welles, il funambolo del barocco cinematografico, l'architetto di labirinti visivi come Quarto Potere e L'infernale Quinlan, qui si costringe (o viene costretto) a una sobrietà formale che è quasi un'abiura. Lui stesso lo liquidò come il suo film meno amato, un lavoro su commissione per dimostrare a Hollywood di poter essere un regista "normale", puntuale e ligio al budget. Eppure, proprio in questa apparente normalità si annida il veleno più puro. L'orrore, ci suggerisce Welles, non ha bisogno di ombre espressioniste o di angolazioni di ripresa sghembe per manifestarsi; a volte, basta il sorriso affabile di un professore di liceo. Il film è un thriller che si traveste da melodramma domestico, o forse il contrario: un bisturi che seziona il corpo sano della società americana per trovarvi dentro il bacillo della patologia europea, un tumore maligno trapiantato e nascosto in piena vista.
La trama è di una semplicità quasi biblica: l'agente della Commissione per i Crimini di Guerra, il signor Wilson (un monumentale Edward G. Robinson), dà la caccia a Franz Kindler, uno degli architetti dell'Olocausto, una mente spietata e metodica svanita nel nulla. La sua intuizione, più filosofica che poliziesca, è che un uomo così ossessionato dall'ordine e dalla precisione – un uomo la cui perversione è la passione per gli orologi – non può semplicemente scomparire. Deve ricostruire, ricreare un sistema perfetto. E quale sistema più perfetto, più ordinato della vita in una piccola città del New England? Kindler è lì, sotto le mentite spoglie del professor Charles Rankin (un Orson Welles che infonde nel suo personaggio una bonomia agghiacciante), appena sposato con la figlia di un giudice della Corte Suprema, Mary Longstreet (Loretta Young), l'incarnazione stessa della fiducia e dell'innocenza americana.
Il film diventa così un duello che trascende la classica dinamica cacciatore-preda. È uno scontro di civiltà, un conflitto metafisico. Da un lato, Wilson, interpretato da un Robinson che si spoglia di ogni gangsterismo per indossare i panni di un mite ma implacabile ragioniere della giustizia. Non è un eroe d'azione; la sua arma è la pazienza, la logica deduttiva, una sorta di tenacia morale che assomiglia più a quella di un entomologo che a quella di un detective. Dall'altro, Welles/Rankin, un Mefistofele in tweed che ha trovato il suo rifugio perfetto. La sua performance è un capolavoro di controllo e implosione. Il suo fascino è la maschera, ma sotto di essa non c'è il vuoto, bensì un nucleo di ideologia pura, fredda e incandescente. La sua ossessione per gli orologi non è un vezzo, ma il sintomo della sua malattia: la fede in un universo meccanico, gerarchico, dove l'umanità è solo un ingranaggio da riparare o eliminare.
In questo, L'altro uomo dialoga a distanza con la letteratura di Nathaniel Hawthorne. Harper, Connecticut, è la Salem del XX secolo, una comunità fondata su un patto di rettitudine che viene minacciato non da una strega, ma da un tipo diverso di peccato originale: il male razionale, burocratico, quello che non nasce dalla passione ma da un'idea. E Mary, la moglie di Rankin, è la vera arena di questo conflitto. Il viaggio di Loretta Young dalla beatitudine coniugale alla terrificante consapevolezza è il cuore pulsante del film. La sua casa, il nido d'amore, si trasforma lentamente in una prigione psicologica, una gaslight chamber dove la sua sanità mentale viene sistematicamente erosa. Welles orchestra questa discesa agli inferi con una crudeltà registica squisita, facendo della paranoia non un elemento di genere, ma la condizione esistenziale di chi scopre che il fondamento della propria realtà è una menzogna.
E poi, c'è l'orologio. La torre dell'orologio che domina la città non è solo una scenografia, ma il vero co-protagonista del film. È un simbolo fallico di potere e controllo, la cattedrale profana di Kindler, il suo capolavoro di meccanica e morte. È lì che la sua ossessione per il tempo e l'ordine trova la sua espressione più sublime e terrificante. Il climax, che si svolge tra i suoi ingranaggi giganteschi, è una delle sequenze più memorabili del cinema di Welles e del noir in generale. Non è solo un regolamento di conti, ma un'allegoria potente: l'ideologia nazista, basata su un'utopia meccanicistica e disumana, viene letteralmente impalata dalla lancetta del suo stesso tempo, trafitta dal suo stesso simbolo di ordine. È un contrappasso dantesco di rara potenza visiva, che anticipa le vertigini esistenziali del campanile di Vertigo di Hitchcock.
Ma il gesto più radicale, e per l'epoca quasi inconcepibile, Welles lo compie a metà film. Per convincere Mary della vera natura del marito, Wilson le mostra un filmato. Non una ricostruzione, non una finzione, ma reali, insostenibili immagini documentaristiche dei campi di concentramento. Per due minuti, il velo della finzione di Hollywood viene squarciato. Lo spettatore del 1946, seduto al cinema per vedere un thriller con le sue star preferite, viene costretto a guardare l'orrore indicibile della Storia. È una scelta di una modernità sconcertante, un atto meta-testuale che rompe il patto narrativo e dice al pubblico: "Questo non è un gioco. Il mostro che vedete non è un 'bogeyman' cinematografico. È reale. Questo è ciò che ha fatto". In quel momento, L'altro uomo cessa di essere "solo" un film e diventa un documento, un atto d'accusa, un monumento alla memoria.
Nonostante la sua struttura apparentemente classica, il film è disseminato di tocchi inconfondibilmente wellesiani. La profondità di campo che mette in relazione dialettica personaggi e ambiente, la composizione delle inquadrature che isola o schiaccia le figure, il modo in cui una semplice conversazione in una farmacia diventa un balletto di sguardi e sottintesi carico di una tensione quasi insopportabile. Welles, anche con le mani legate, non può fare a meno di trasformare la prosa in poesia visiva.
L'altro uomo è, in definitiva, un'autopsia del male che si rifiuta di morire. Un'esplorazione della sua capacità mimetica, della sua abilità di attecchire nel terreno più fertile dell'innocenza. È un film sulla fragilità della pace e sulla necessità perpetua della vigilanza. Welles, forse senza volerlo, ha creato non tanto un thriller impeccabile, quanto una parabola morale per l'era atomica, un monito che risuona con una chiarezza spaventosa anche oggi. L'uomo nero non vive più nelle foreste oscure delle fiabe, ma può essere seduto accanto a noi, a tavola, sorridendo mentre corregge i compiti dei nostri figli. L'orologio di Harper ha smesso di suonare, ma il suo silenzio è più assordante di qualsiasi rintocco, perché ci ricorda che il tempo, per certi orrori, non passa mai veramente.
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