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Paesaggio nella Nebbia

1988

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Rarefatto e incerto come suggerisce semanticamente il titolo, questo film del regista greco Angelopoulos si presta a diverse letture. La sua natura elusiva non è solo un tratto distintivo, ma un vero e proprio fondamento della poetica angelopouliana, un velo di nebbia che avvolge tanto il paesaggio esteriore quanto l'anima dei suoi personaggi e la storia stessa, invitando lo spettatore a una partecipazione ermeneutica attiva. È un’opera che si inscrive con prepotenza nella filmografia di un maestro della Settima Arte, riconoscibile fin dai primi fotogrammi per il suo inconfondibile stile contemplativo, i suoi lunghi piani sequenza e un ritmo quasi liturgico che si sottrae con grazia alle urgenze narrative convenzionali.

C’è indubbiamente l’elemento del road movie, ma depurato di ogni retorica avventurosa o didascalica; non è la celebrazione della libertà su quattro ruote alla maniera americana, bensì un cammino di dolorosa e inevitabile scoperta di sé e del mondo. C’è la ricerca delle proprie radici, una quête esistenziale che trascende la mera genealogia per interrogarsi sull'identità, sulla memoria e sull'appartenenza in un'Europa di confini fluidi e certezze effimere. C’è il tema beckettiano del loop sequenziale innervato ad una ricerca senza fine, un'odissea della speranza e della disillusione in cui l'obiettivo agognato si rivela un miraggio, un punto indefinito all'orizzonte che si allontana incessantemente. Questo richiamo a Beckett non è puramente letterario, ma si manifesta nella desolazione dei paesaggi, nell'attesa atavica e muta, nella cadenza quasi rituale con cui gli eventi si susseguono senza portare a una reale risoluzione, lasciando i giovani protagonisti in una sospensione quasi metafisica. E c’è, infine, l’intimismo di un lessico familiare, un nucleo affettivo primordiale che resiste e si definisce nel crogiolo delle avversità, un legame fraterno che diventa l'unico faro in un universo altrimenti indifferente o ostile.

La storia è quella di Voula e Alexandros, due bambini, fratello e sorella, che intraprendono un viaggio attraverso la Grecia per raggiungere il padre in Germania. Ma il genitore in realtà non esiste, la madre si è fatta carico di raccontare loro una pietosa bugia in merito. Questa menzogna fondante eleva il loro peregrinare da semplice viaggio fisico a vera e propria allegoria della ricerca di un'identità perduta o mai esistita, di un'autorità genitoriale, forse persino divina, assente. Il padre assente è un topos ricorrente nel cinema di Angelopoulos, spesso metafora di una nazione frammentata, di una storia irrisolta, di un futuro incerto. I bambini, nella loro candida resilienza, diventano esploratori di una condizione umana universale, sospesi tra l'innocenza e una maturità imposta dalla crudeltà del reale.

Nel corso del viaggio i due bambini incontreranno bislacchi personaggi e situazioni al limite del surreale, quasi delle epifanie fugaci di un'umanità variegata e a tratti disperata. Dal camionista che offre loro passaggi e protezione temporanea, al reggimento di soldati malinconici, fino alla compagnia teatrale itinerante, ogni incontro è un tassello che aggiunge complessità al mosaico del loro percorso. Questi personaggi, spesso marginali ed enigmatici, offrono squarci di umanità autentica, ma anche di solitudine e rassegnazione, in un paese che sembra anch'esso in transito, in bilico tra il mito e la modernità incompiuta. Le situazioni al limite del surreale non sono mai fine a sé stesse, ma si inseriscono organicamente nel tessuto narrativo, amplificando la dimensione onirica e allegorica del film. Si pensi all'albero che, strappato dal suolo da un elicottero, attraversa il cielo come una visione edenica e dolorosa, un simbolo di radici sradicate e di una natura violata, ma al contempo portatore di una speranza ancestrale.

Il film è strutturato sulle folgorazioni figurative che si alternano conferendo un forte potere suggestivo alla narrazione. Angelopoulos non racconta, dipinge. Le sue inquadrature sono tele in movimento, composte con una maestria tale da rendere ogni fotogramma autonomamente significativo. Molte scene grazie a questa gagliardia iconocrafica persistono a lungo nella memoria dopo la visione: come la sequenza dei traveling players (tema caro ad Angelopoulos, che gli dedicò un intero capolavoro come La Recita) che recitano un dramma senza tempo davanti ad un mare plumbeo fuso con l’orizzonte. Quella scena è una vertigine: un teatro dell'assurdo allestito sul limitare tra terra e acqua, tra finito e infinito, dove l'arte diventa l'ultimo baluardo contro il caos del mondo, ma anche un'eco di storie e sofferenze che si ripetono ciclicamente. La macchina da presa si muove lentamente, quasi come un osservatore divino, catturando la bellezza malinconica di paesaggi vasti e desolati, impregnati di un silenzio assordante che viene rotto solo dai suoni diegetici e dalla musica evocativa (sebbene non composta qui da Eléni Karaïndrou, la sua assenza è riempita da un'atmosfera sonora altrettanto potente). Ogni inquadratura è un distillato di tempo e spazio, dove la profondità di campo e la composizione rigorosa rivelano strati di significato, invitando lo spettatore a una meditazione visiva piuttosto che a un consumo passivo. La pioggia battente, la nebbia che inghiotte il treno, i volti segnati dal viaggio – ogni elemento concorre a creare un universo visivo coerente e profondamente emozionale.

Scritto con la collaborazione del grande Tonino Guerra, il film risulta di una bellezza delicata e malinconica: una poetica delle piccole cose che si confronta con le grandi domande esistenziali. L'influenza di Guerra, raffinato sceneggiatore e poeta, è palpabile nella capacità di infondere lirismo anche nelle situazioni più crude, di cogliere la dignità nell'ordinario e l'universalità nel dettaglio. È la "poetica della nebbia" stessa, che non nasconde ma rivela, purifica e astrae, permettendo ai contorni della realtà di sfumare in un'atmosfera di sogno e riflessione. Paesaggio nella Nebbia si erge così come un'elegia moderna sull'innocenza perduta e sulla tenacia della speranza, un viaggio interiore che, nonostante l'amara verità del non-padre, culmina in una delle immagini più indelebili e commoventi della storia del cinema: l'abbraccio dei due fratelli sotto l'albero al sorgere del sole, un'oasi di vita e radicamento trovata alla fine di un'odissea di incertezza, una testimonianza silenziosa della resilienza dello spirito umano.

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