L'Armata Brancaleone
1966
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Regista
Monicelli scrive e dirige un’opera comica, usando l’arma a doppio taglio della parodia in chiave sguaiata ed elaborando un personaggio quasi surreale, in bilico tra Cervantes e Rabelais. Ma la sua maestria va ben oltre la semplice burla: qui l'operazione è una decostruzione sapiente e amara del genere epico-cavalleresco, una demolizione dei miti fondativi che l’Italia del dopoguerra, ancora aggrappata a narrazioni grandiloquenti, stentava a superare. L'armata di Brancaleone non è solo una banda di disadattati, ma la quintessenza di un'Italia eterna, affacciata sull'abisso della miseria ma capace di trovare nella propria cialtroneria una forma inestirpabile di resilienza. Brancaleone stesso non è il Don Chisciotte nobile ma folle di Cervantes, quanto piuttosto un amalgama del suo idealismo svirgolato e della goffa corporeità, dell'ingordigia e della vitalità grottesca di un Gargantua rabelaisiano, calato in un Medioevo non da romanzo cavalleresco ma da cronaca spicciola, di fango, fame e superstizione.
Un gruppo di vagabondi perdigiorno, un’accozzaglia di miserie umane e vizi capitali ambulanti, viene in possesso di una pergamena che attesta il possesso della cittadella pugliese di Aurocastro. Non è l'oro a muoverli, quanto una speranza quasi biblica, pur se corrotta e illusoria, di una "Terra Promessa" che si rivelerà, come ogni promessa in terra monelliana, l'ennesimo miraggio beffardo. Lo sgangherato plotone elegge il cavalier Brancaleone a leader di quell’impresa e si mette in marcia verso la supposta fortuna, in un percorso che è l’archetipo del viaggio picaresco: un'odissea episodica attraverso una terra inospitale e popolata da figure bizzarre, dove la sopravvivenza è la vera epica e il fallimento l’unica certezza.
Inutile dire che il viaggio sarà costellato da imprevisti e avventure di ogni genere che metteranno in luce la cialtroneria cavalleresca del prode Brancaleone. La sua "prodezza" è un monumento alla vanagloria, un’esibizione di coraggio puramente teatrale, destinata a scontrarsi ogni volta con la più cruda e comica delle realtà. Egli è l'anti-eroe per eccellenza, la figura monelliana del disgraziato che si illude della grandezza, destinato a inciampare ogni volta, ma con una dignità sgangherata e una retorica irresistibile. Un fallimento epico, glorioso nella sua totale inettitudine, che diventa la vera cifra stilistica del film.
Due le scene che vogliamo ricordare per la loro inimitabile forza comica e la loro acutezza sociolinguistica. La prima è il roboante discorso di Brancaleone alla truppa prima di partire per l’impresa, dove promette ai suoi prodi, tesori e bianche femmine: “Silenzio! Io vi sono duce! E però mi dovete obbedienza e dedizione. Lo nostro cammino sarà cosparso di sudore, lacrime et sanguine. Siete voi pronti a tanto? Respondete a una voce. Siete voi pronti a morire pugnando? Noi marceremo per giorni, settimane et mesi, ma infine averemo castella, ricchezze et bianche femmine dalle grandi puppe.” Questo non è un semplice monologo: è una sinfonia verbale, un'immersione nel "brancaleonesco", il linguaggio inventato da Monicelli e Age & Scarpelli, un impasto geniale di volgare medievale, latino maccheronico, espressioni auliche storpiate e battute di irresistibile comicità popolare. Gassman lo modella con la sua voce profonda e impostata, trasformando ogni frase in un'opera d'arte fonetica, un equilibrio precario tra il sublime e il ridicolo, che eleva la fanfaronaggine a forma d'arte.
La seconda scena da ricordare è il duello con il cialtronesco Teofilatto dei Leonzi (interpretato da un Volontè evidentemente a suo agio anche nei ruoli comici), dove nella furia dell’agone (e in mezzo alle tante tregue imposte da una contesa più burocratica che bellica) i due disboscano e mietono il paesaggio. La presenza di Gian Maria Volontè, attore simbolo del cinema d'impegno e drammatico, in un ruolo così caricaturale è un tocco di genio monelliano, che sottolinea la sua versatilità e la sua capacità di calarsi in personaggi estremi. Il duello stesso è un'allegoria della distruttività ottusa e vana, una danza di incompetenza che lascia dietro di sé solo devastazione, un paesaggio non più bucolico ma segnato dalle spade dei due "valorosi" in un’immagine di surreale, quasi cartoonesca, violenza. Ogni interruzione, ogni trattativa, ogni tregua per bere o riposare rende l'assurdità del conflitto ancora più palpabile, in un ritratto mordace dell'italica arte di arrangiarsi e, paradossalmente, di procrastinare persino la violenza.
Ma non si possono tralasciare altri passaggi memorabili: l'incontro con il monaco Zenone (Folco Lulli), profeta di sventura e portatore di pestilenze, emblema di una religiosità popolare intrisa di fatalismo e superstizione; o la figura della monaca Teodora (Maria Grazia Buccella), oggetto del desiderio e della salvezza, che aggiunge un elemento di erotismo goffo e sacrilego. Questi personaggi, come l'intero plotone di miserabili che segue Brancaleone – Pigna, Mangoldo, Taccone, il nano Gherardo –, sono archetipi della commedia all'italiana, figure che, pur nella loro esagerazione grottesca, riflettono uno spaccato amaro e veritiero di un'umanità perennemente in bilico tra la fame e la speranza, l'ignoranza e una spinta irrefrenabile verso un riscatto mai raggiunto.
Un’opera di straordinaria vis comica, impreziosita dalla recitazione mimetica e colossale di Vittorio Gassman, che dona al personaggio un alone di mistica fanfaronaggine ma anche una profonda, quasi struggente, umanità. Brancaleone è un campionario di tic e di pose, ma è anche un uomo che cerca disperatamente un senso, una dignità, anche se solo nella più sfacciata delle menzogne. La sua goffaggine fisica, la sua pomposità vocale, il suo sguardo perennemente tra il sognante e il disilluso, sono gli strumenti con cui Gassman scolpisce un personaggio iconico, entrato di diritto nell'immaginario collettivo italiano.
"L'Armata Brancaleone" non è solo una commedia spassosa; è un saggio antropologico sulla natura dell'italiano medio, un'allegoria della sua tendenza a idealizzare la sconfitta, a trasformare il fallimento in leggenda. Il film, a quasi sessant'anni dalla sua uscita, conserva intatta la sua forza satirica e la sua sorprendente modernità, testimoniando la capacità di Monicelli di leggere l'anima profonda di un Paese attraverso la lente acida e disincantata della risata. È un capolavoro senza tempo, un’amara e geniale elegia della gloriosa, inarrestabile cialtroneria umana.
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