L'Armata degli Eroi
1969
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Regista
Un Melville che non ti aspetti, o forse, il Melville più puro e distillato di tutti. Con L'Armata degli Eroi il maestro del polar francese sembra abbandonare i foschi temi del noir metropolitano, i gangster in trench e i locali fumosi, per addentrarsi nel dramma bellico che coinvolse e travolse la Francia. Ma questa è solo un'impressione superficiale. In realtà, Melville compie un'operazione geniale e sovversiva: non abbandona il suo genere d'elezione, ma ne trapianta il cuore gelido e i codici spietati nel corpo della Resistenza Francese. Il bellissimo titolo originale di quest'opera, L'Armée des Ombres (l'Armata delle Ombre), fa balenare immediatamente il significato ultimo della narrazione. Quello che Melville ci mostra non è un esercito di eroi solari, ma un'organizzazione clandestina che opera con la stessa logica, la stessa professionalità e la stessa, terribile necessità morale di una banda di criminali. Un esercito sotterraneo che, durante la feroce occupazione nazista, si muoveva in silenzio dietro una rispettabile facciata, per opporre una silenziosa ma strenua resistenza all'invasore. Tratto dal celeberrimo omonimo romanzo di Joseph Kessel, scritto nel 1943 da un testimone oculare di quei tragici eventi ed edito qualche anno dopo, è un crudo resoconto delle attività della Resistenza. Ma è anche un film profondamente personale per Melville, lui stesso un veterano della Resistenza, che attende più di vent'anni per realizzarlo, quasi a voler trovare la giusta distanza emotiva e la perfetta maturità stilistica. Gli eroi di questa armata sono uomini, è bene dirlo, spogliati di ogni alone retorico di propaganda, ma raffigurati nella loro fragile, esausta umanità. Ed è forse questo l'aspetto più intimamente affascinante di questo film: i suoi personaggi camminano a malapena in avanti mentre cercano disperatamente di sopravvivere alla repressione nazista o alle ambiguità morali intrinseche alla loro posizione. La Resistenza di Melville sembra un'inevitabile percorso verso la morte, una trappola mortale in cui gli uomini si dibattono vanamente. Questa visione oscura e in qualche modo obliqua rispetto alla Storia, specialmente nella Francia post-Sessantotto in cui il film uscì, eleva la cifra artistica dell'opera donandole una patina di tenebrosa indecifrabilità, di insondabile latenza semantica. Il film fu un fiasco alla sua uscita, accusato di essere troppo "gaullista" in un'epoca di contestazione, ma la verità è che era l'esatto opposto: un'opera troppo pessimista e complessa per un paese che cercava ancora miti semplici e confortanti.
Il film si apre con un'immagine iconica e agghiacciante: una lunga, immobile inquadratura dei soldati tedeschi che sfilano lungo gli Champs-Élysées, con l'Arco di Trionfo sullo sfondo. È il 1940, anno in cui la Francia capitolò sotto i colpi del nemico divenendo, di fatto, una nazione militarmente occupata. Melville inizia il suo film non con un atto di eroismo, ma con un'immagine di totale, umiliante sconfitta. È una dichiarazione di intenti che imposta il tono funereo dell'intera opera. L'azione quindi si sposta e prende luogo nel 1942. Il protagonista del racconto, Philippe Gerbier (un Lino Ventura monumentale nella sua stoica impassibilità), sobrio intellettuale antifascista, viene catturato e condotto in un campo di prigionia controllato dalla polizia di Vichy, il governo collaborazionista che agiva in concerto con gli invasori. Subito viene inquadrata la personalità dell'uomo, il prototipo dell'eroe melvilliano: silenzioso, professionale, laconico. Si siede in silenzio nella camerata dei prigionieri offrendo le sue sigarette ai compagni. Non ci sono grandi discorsi, solo gesti. Successivamente l'uomo viene condotto in un albergo parigino per subire l'interrogatorio della Gestapo, ma grazie ad uno stratagemma riesce a fuggire facendo perdere le proprie tracce, anche grazie al silenzioso aiuto di un barbiere che ospitandolo nel proprio negozio lo nasconde alla ricerca. Dopo questo episodio Gerbier lascia Parigi per raggiungere a Marsiglia un manipolo di partigiani gollisti. Da qui continuerà la sua attività di Resistenza sotto la forma di azioni di sabotaggio, senza mai opporsi militarmente al nemico. La sua prima azione, come capo della rete, è decidere come uccidere il compagno delatore che lo ha consegnato nelle mani della polizia. La scena dell'uccisione del traditore è emblematica della filosofia del film. L'uomo viene portato in una casa affittata per l'occasione, ma la presenza di rumorosi vicini fa temere a Gerbier e compagni di essere scoperti. Viene quindi scartata l'opzione di giustiziare il traditore con una pistola, troppo rumorosa. Viene strangolato con un canovaccio. L'atto è goffo, intimo e orribile. Tutto si svolge in un silenzio irreale e la cinepresa indugia sui volti degli esecutori e su quello del giustiziato. Tutto appare diafano e surreale, in una muta e prolungata espressione di orrore che transita indifferentemente su ciascun volto. Non c'è nulla di eroico in questo omicidio; è un lavoro sporco, necessario, un atto mostruoso compiuto in nome di una causa giusta. È la prima di una lunga serie di compromessi morali che i protagonisti dovranno affrontare. Al gruppo di Gerbier si unisce anche Jean-François Jardie, il cui fratello, Luc, un raffinato e solitario intellettuale parigino, è in realtà il capo segreto della Resistenza francese, "Grand Patron". L'incontro tra i due fratelli, nella casa parigina di Luc, è giocato su un registro semantico differente rispetto al resto del film e si ha l'impressione di assistere alla presentazione di un personaggio indolente e timoroso la cui vera natura verrà più tardi svelata. L'occasione per rivelarne la vera identità è un viaggio segreto di Luc Jardie e Gerbier a Londra, al fine di coordinare le attività della Resistenza con quella degli Alleati. I due uomini, ricevute scarne promesse di collaborazione da parte degli inglesi, riluttanti a causa della diffidenza di Churchill verso la Resistenza stessa, si aggirano in una Londra la cui vita, nonostante la guerra, appare gaia e spensierata, lontana anni luce dal soverchiante terrore che in quel momento si respirava in Francia. Addirittura i due uomini hanno occasione di assistere al film Via col Vento, commentandone la bellezza all'uscita dal cinema. Questa parentesi surreale serve a sottolineare la loro profonda alienazione: sono fantasmi che visitano il mondo dei vivi, un mondo per cui combattono ma a cui non appartengono più. Mentre sono ancora a Londra ricevono la notizia che Félix, un loro compagno di lotta, è stato catturato dai tedeschi ed è in quel momento sotto tortura. Gerbier rientra precipitosamente in patria facendosi paracadutare da un aereo inglese in una zona rurale. Mathilde (una straordinaria Simone Signoret), una donna dall'indole forte e dal temperamento geniale, lo informa sulla situazione cercando di escogitare un piano per liberare Félix, ma tutto si rivela inutile. Allora Jean-François si consegna volontariamente al nemico per aver modo di consegnare una pillola di cianuro all'uomo, ma anche il suo sacrificio risulterà vano. Infine anche Gerbier viene catturato dai tedeschi, che lo condannano a morte imponendogli di correre in un poligono di tiro con alle spalle una mitragliatrice puntata sui condannati. Ma durante la corsa Mathilde riesce a liberare Philippe tramite un abile stratagemma e a trarlo in salvo in un luogo sicuro. Ormai la cultura del sospetto ha irrimediabilmente inquinato i rapporti tra i Partigiani, e una volta che Mathilde cade nelle mani dei nazisti si teme il peggio, a causa della figlia della donna su cui i tedeschi fanno leva per ricattarla e indurla a parlare. Una volta liberata Mathilde, a Luc, Philippe e gli altri non rimarrà altro da fare che ucciderla per scongiurare la possibilità che possa rivelare l'intera rete clandestina. Nell'ultima, agghiacciante scena del film, Mathilde guarda intensamente Luc e Philippe che da un'auto l'attendono con una pistola in pugno. I colpi che abbattono Mathilde, la più forte e capace di tutti loro, sono anche un devastante scossone alle coscienze degli uomini, al loro incrollabile ideale di una Patria libera dagli invasori, a qualsiasi costo. Lo sguardo di Mathilde appare rassegnato e incredulo allo stesso tempo, una lancinante stilettata alla purezza di una Lotta che per ambire al successo, dovette calpestare anche gli stessi patrioti che la portavano eroicamente avanti.
In definitiva, L'Armata degli Eroi è il capolavoro di Melville perché è la sua opera più personale e universale. È un tributo al coraggio silenzioso della Resistenza, ma anche una meditazione desolata sul prezzo morale di quel coraggio. Il suo stile, che unisce il rigore quasi ascetico di Robert Bresson alla mitologia fatalista del noir, crea un'atmosfera unica di tensione e malinconia. Il film si chiude con delle didascalie che ci informano del destino finale dei protagonisti: quasi tutti moriranno, catturati, torturati o suicidi. Non c'è vittoria, non c'è parata trionfale. C'è solo il silenzio. Melville smantella il mito romantico della Resistenza per mostrarci una verità più complessa e dolorosa: una storia di uomini e donne esausti, spaventati e straordinariamente coraggiosi, che hanno scelto di camminare nell'ombra, sapendo che molto probabilmente non avrebbero mai più rivisto la luce. Non è un film sulla vittoria, ma sulla profonda, tragica dignità della lotta stessa.
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