Le lacrime amare di Petra von Kant
1972
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Regista
Un appartamento può essere un intero universo. O, più precisamente, una prigione barocca, un terrario per l'anima in cui le passioni umane, private dell'ossigeno del mondo esterno, crescono ipertrofiche, mostruose e magnifiche. Questo è lo spazio scenico e mentale di Le lacrime amare di Petra von Kant, il capolavoro da camera di Rainer Werner Fassbinder del 1972, un'opera che distilla l'essenza stessa del suo cinema in 124 minuti di claustrofobia cromatica e crudeltà psicologica. Tratto da una sua stessa pièce teatrale, il film non tenta mai di nascondere le proprie origini sceniche; al contrario, le esalta, trasformando il limite spaziale in un'assoluta dichiarazione di poetica. L'inferno, come ci insegnò Sartre in Huis Clos, sono davvero gli altri, specialmente quando si è costretti a condividerne i tappeti e l'aria viziata.
La stanza di Petra von Kant (una monumentale Margit Carstensen) non è un semplice interno borghese. È un'installazione, un diorama della sua stessa psiche. Manichini senza volto, come golem in attesa di un'anima, popolano lo spazio, eco silente della sua professione di stilista di moda. Alle pareti, un'enorme riproduzione del Mida e Bacco di Poussin funge da memento mori e da manifesto tematico: un avvertimento perenne sulle conseguenze dell'avidità e del desiderio che trasforma tutto ciò che tocca non in oro, ma in una sua sterile, mortifera imitazione. In questo santuario dell'artificio, Petra regna come una regina dispotica sul suo unico suddito: la muta, sottomessa e onnipresente assistente Marlene (un'indimenticabile Irm Hermann), che si muove come un fantasma efficiente, registrando ogni capriccio, ogni sfuriata, ogni lacrima della sua padrona con la precisione di una macchina da scrivere e lo sguardo vuoto di un giudice supremo.
La narrazione, suddivisa quasi in atti teatrali, è di una semplicità disarmante. Petra, reduce da un matrimonio fallito e immersa in un'autarchia emotiva venata di disprezzo per gli uomini, si innamora perdutamente della giovane e bellissima Karin Thimm (Hanna Schygulla), aspirante modella di estrazione proletaria. Quello che segue è un manuale proustiano sulla patologia dell'amore, sezionato con la precisione di un chirurgo e la spietatezza di un entomologo. Fassbinder non è interessato alla celebrazione di un amore lesbico; è interessato a smascherare l'amore come la più sofisticata e brutale forma di transazione di potere. La relazione tra Petra e Karin è un campo di battaglia dove si scontrano classe, cultura, età e aspettative. Petra non ama Karin; ama l'idea di plasmarla, di possederla, di proiettare su di lei il proprio ideale di bellezza e devozione. Karin, dal canto suo, non ama Petra; ne subisce il fascino e ne sfrutta il potere, offrendo il proprio corpo e la propria giovinezza in cambio di un'ascesa sociale. È un duello che ricorda quello tra Margo Channing e Eve Harrington, ma spogliato di ogni patina hollywoodiana e immerso in un'atmosfera da tragedia greca sotto anfetamine.
Il genio di Fassbinder, e del suo direttore della fotografia Michael Ballhaus, sta nel rendere cinematografica questa stasi teatrale. La macchina da presa si muove con una lentezza ipnotica e predatoria. Lenti zoom si stringono sui volti, intrappolando le attrici nel quadro, isolando un dettaglio, un tic, una smorfia. Le panoramiche attraversano la stanza con una fluidità glaciale, collegando i personaggi ma sottolineandone al contempo l'incolmabile distanza. Gli specchi e le superfici riflettenti moltiplicano le immagini, frammentano le identità, suggerendo che ogni emozione è una performance, ogni confessione una messinscena. Questo stile visivo deve tutto, come Fassbinder stesso non si stancò mai di ammettere, ai melodrammi di Douglas Sirk. Le lacrime amare di Petra von Kant è l'equivalente concettuale di un film di Sirk: ne prende i colori saturi, le passioni esasperate e la critica implicita alla morale borghese, ma ne rimuove il velo consolatorio del lieto fine, lasciando allo spettatore solo l'impalcatura nuda e crudele dei meccanismi emotivi. Petra è la versione tedesca e nichilista delle eroine di Lana Turner o Jane Wyman, una donna che scopre che tutto ciò che il paradiso permette è, in fin dei conti, una prigione dorata costruita con le proprie mani.
Ogni dialogo è una stilettata, una diatriba filosofica mascherata da conversazione salottiera. Fassbinder scrive come se ogni parola fosse un'arma e ogni silenzio una minaccia. La performance di Margit Carstensen è un tour de force che attraversa l'intero spettro emotivo umano: dalla seduzione calcolatrice all'abbandono estatico, dalla gelosia furente all'autocommiserazione più abietta. Il suo monologo telefonico, ubriaca e disperata nel giorno del suo compleanno, è uno dei vertici del cinema moderno, un'aria d'opera disperata cantata in un deserto di solitudine. Di fronte a questa tempesta, Hanna Schygulla oppone una performance di calcolata e quasi annoiata indifferenza. La sua Karin non è una femme fatale, ma una pragmatica sopravvissuta che comprende istintivamente le regole del gioco e le usa a proprio vantaggio.
Ma il vero centro sismico del film, il suo buco nero morale, è Marlene. Il suo silenzio non è assenza, ma presenza assoluta. È lo sguardo attraverso cui noi spettatori osserviamo la tragedia. È la classe operaia che serve e osserva la decadenza della borghesia artistica. È l'amore non corrisposto e non dichiarato, più puro e più terribile di quello urlato da Petra. Ogni suo gesto – battere a macchina, servire un drink, raccogliere un bicchiere rotto – è carico di un significato represso che esploderà solo nel finale. La sua ribellione finale, tanto catartica quanto agghiacciante, non è solo la rivolta di una serva contro la padrona, ma la negazione stessa del sistema di valori di Petra. Marlene distrugge l'idolo non con le parole, ma con l'azione, con la partenza, con la rivendicazione della propria, silenziosa, esistenza. È un finale che eleva il film da studio psicologico a parabola universale sul rapporto tra oppressori e oppressi, tra chi parla e chi agisce.
Le lacrime amare di Petra von Kant fu girato in soli dieci giorni, un'impresa che testimonia la simbiosi quasi telepatica che Fassbinder aveva raggiunto con la sua troupe e il suo "clan" di attori feticcio. Questa urgenza produttiva si traduce in un'intensità febbrile che percorre ogni fotogramma. È un film che respira e soffoca insieme ai suoi personaggi. Un'opera che, a distanza di decenni, non ha perso un grammo della sua potenza urticante. Non è un film facile, né consolatorio. È un'esperienza estetica ed emotiva totalizzante, un viaggio nel cuore di tenebra delle relazioni umane, dove l'amore è solo il nome più presentabile che diamo al nostro bisogno di dominare e di essere dominati. È la crisalide da cui usciranno i futuri capolavori di Fassbinder, da La paura mangia l'anima a Il matrimonio di Maria Braun, ma che rimane, nella sua perfezione formale e nella sua radicale onestà, un'opera insuperata, un diamante nero e spietato incastonato per sempre nella storia del cinema.
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