Le relazioni pericolose
1988
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Regista
Un balletto di crudeltà coreografato con la precisione di un orologiaio svizzero e la malizia di un demone. Ecco cos'è, nella sua essenza più distillata e velenosa, Le relazioni pericolose di Stephen Frears. Lungi dall'essere un mero dramma in costume, un ennesimo feticcio per parrucche incipriate e corsetti soffocanti, il film è un'autopsia spietata dell'anima umana, condotta con il bisturi affilato di un dialogo che non ha perso un grammo della sua letale efficacia dal 1782, anno di pubblicazione del romanzo epistolare di Choderlos de Laclos. Frears, lavorando sulla superba sceneggiatura di Christopher Hampton (adattata dalla sua stessa pièce teatrale), non si limita a illustrare una storia; orchestra una sinfonia di disfacimento morale, ambientata in una gabbia dorata che sta per essere scardinata dalla Storia.
L'arena è il salotto dell'aristocrazia francese, un mondo chiuso, autoreferenziale e prossimo al collasso, anche se i suoi abitanti sono troppo impegnati a tessere le proprie trame per accorgersene. Qui, le parole non sono veicoli di comunicazione, ma armi. Ogni frase è una mossa su una scacchiera invisibile, ogni lettera una dichiarazione di guerra mascherata da sospiro d'amore. I due maestri di questo gioco mortale sono la Marchesa de Merteuil (una Glenn Close la cui performance trascende la recitazione per diventare iconografia del male intellettuale) e il Visconte di Valmont (un John Malkovich serpentino, languido, la cui voce strascicata è essa stessa un atto di seduzione e disprezzo). Non sono amanti, non sono nemici; sono due divinità decadute di un pantheon privato, legati da un patto faustiano di reciproca ammirazione per la propria malvagità. La loro relazione è un'anomalia intellettuale, un'unione di menti talmente affini nella loro perversione da poter esistere solo nel vuoto etico che si sono creati intorno.
Il loro legame ha la complessità strategica di una partita a Go e la tensione psicologica di un thriller di Patricia Highsmith. Merteuil, tradita da un ex amante, incarica Valmont di sedurne la futura, giovanissima sposa, la virginale Cécile de Volanges (una Uma Thurman all'inizio della sua carriera, perfetta nel suo incarnare un'innocenza goffa e acerba). Valmont, però, ha mire più alte: la conquista della virtuosissima e devota Madame de Tourvel (Michelle Pfeiffer, il cui volto è una tela su cui si dipinge ogni sfumatura di tormento, desiderio e disperazione). La scommessa è lanciata: se Valmont riuscirà a fornire una prova scritta della caduta di Tourvel, otterrà come premio una notte con la Marchesa. Le vite degli altri non sono che pedine, danni collaterali in una guerra fredda del boudoir combattuta per il puro piacere dell'esercizio del potere.
Ciò che rende il film un capolavoro senza tempo è la sua comprensione profonda della natura performativa del potere. La Marchesa de Merteuil, in un monologo che dovrebbe essere studiato in ogni accademia di scrittura e recitazione, spiega come abbia "creato se stessa". In un mondo che la voleva sottomessa e sentimentale, ha usato le armi del nemico – la discrezione, l'osservazione, l'apparente conformità – per forgiare una volontà di ferro e un intelletto superiore. È una sorta di superomuncolo nietzschiano al femminile, un prodotto mostruoso e magnifico delle costrizioni della sua epoca. La sua tragedia è che, per sconfiggere il sistema patriarcale, ne ha dovuto interiorizzare e perfezionare la crudeltà. Il suo campo di battaglia non è la piazza, ma l'alcova; la sua vittoria non è l'emancipazione, ma la distruzione.
Se la Merteuil è la stratega, Valmont è l'agente operativo, un Don Giovanni post-moderno che non cerca più il piacere della conquista, ma la validazione intellettuale della sua abilità manipolatoria. La seduzione della Tourvel non è un atto di passione, ma un esperimento scientifico, la decostruzione sistematica di un sistema di valori. Malkovich incarna questo libertino con una fisicità quasi rettiliana, una stanchezza esistenziale che si accende solo nella prospettiva della crudeltà. La scelta di attori americani, all'epoca criticata da alcuni puristi, si rivela un colpo di genio: spoglia i personaggi di ogni affettazione prettamente "francese" e li universalizza, trasformandoli in archetipi della psicopatia narcisistica che possiamo riconoscere anche oggi, nei consigli di amministrazione o sui social media.
Il mondo che Frears costruisce intorno a loro è visivamente sontuoso ma spiritualmente soffocante. La fotografia di Philippe Rousselot immerge ogni scena in una luce che ricorda i dipinti di Georges de La Tour, dove le candele creano isole di calore in un oceano di oscurità, metafora perfetta di un'aristocrazia che si crogiola nella propria luce artificiale mentre fuori il buio avanza. Gli interni, opulenti e carichi, non sono sfondi, ma co-protagonisti. Come nelle tele di Fragonard o Boucher, la frivolezza estetica del Rococò nasconde un profondo marciume interiore. I costumi di James Acheson non sono solo abiti, ma armature, gabbie, strumenti di una recita sociale costante. Il rumore di un corsetto che si stringe o il fruscio della seta su un parquet diventano la colonna sonora di una prigione dorata.
Il film è anche un'opera meta-testuale sulla potenza della scrittura. Derivando da un romanzo epistolare, la parola scritta è il motore dell'azione. Una lettera può iniziare una seduzione, siglare un tradimento, decretare una condanna a morte sociale. In una scena cruciale, Valmont usa la schiena di una prostituta come scrittoio per comporre una lettera d'amore per la Tourvel, unendo l'atto fisico più mercenario all'espressione verbale più sublime. È la sintesi perfetta del suo personaggio e del film stesso: la dissociazione totale tra forma e sostanza, tra il linguaggio dell'amore e l'intento della distruzione. Questa ossessione per la parola come strumento di potere lo avvicina, per vie traverse, a opere come Il nastro bianco di Haneke, dove la repressione del discorso genera violenza, o persino a un film come The Social Network di Fincher, dove la codifica del linguaggio digitale crea e distrugge relazioni con la stessa, gelida efficienza.
La discesa agli inferi è inevitabile e catartica. Il gioco, alla fine, consuma i giocatori. Valmont, punto nel vivo da un sentimento inatteso e inaccettabile – l'amore – commette l'errore fatale di mostrare una crepa nella sua corazza di cinismo. La sua fine, in un duello quasi farsesco con il giovane Danceny (un Keanu Reeves la cui ingenuità quasi legnosa è funzionale al ruolo), è patetica, non eroica. Ma è la caduta della Merteuil a essere veramente agghiacciante. Non muore, ma subisce un destino peggiore: viene smascherata. La scena finale, in cui, umiliata pubblicamente e abbandonata da tutti, si strucca lentamente davanti allo specchio, è uno dei momenti più potenti della storia del cinema. La maschera di cipria bianca si scioglie, rivelando non un volto, ma il vuoto. È la cancellazione di un'identità costruita con decenni di fatica, il ritorno al nulla. La colonna sonora di George Fenton, che fino a quel momento aveva echeggiato la grazia barocca, si spegne in un silenzio tombale. L'intera epoca, con la sua eleganza e la sua ferocia, viene spazzata via in quel singolo gesto.
Confrontato con il quasi coevo Valmont di Miloš Forman (1989), un'opera più solare, romantica e perdonista, il film di Frears emerge come la versione definitiva, quella che non fa sconti. Non cerca di umanizzare i mostri, ma si limita a osservarli con una lucidità quasi entomologica mentre mettono in scena la propria, inevitabile estinzione. Le relazioni pericolose non è un film storico; è un thriller psicologico senza tempo, un trattato sulla natura del potere e un avvertimento su come l'intelligenza, quando è priva di empatia, diventi la più sofisticata e terribile delle armi. Un meccanismo narrativo perfetto, elegante e letale come una lama di stiletto nascosta in un mazzo di rose.
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