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Le ricette della signora Toku

2015

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In un universo cinematografico sempre più assordato da fragori digitali e narrazioni ipertrofiche, un film come Le ricette della signora Toku (titolo originale An, letteralmente "pasta dolce di fagioli rossi") si manifesta con la grazia sovversiva di un haiku sussurrato nel cuore di una metropoli. La regista Naomi Kawase, sacerdotessa di un cinema che respira all'unisono con la natura e le sue stagioni, compie qui un'operazione che trascende il "food movie", elevando la preparazione di un semplice dolce a rito sacro, a metafora ontologica dell'esistenza stessa. Ci troviamo di fronte non tanto a una storia, quanto a una liturgia della materia, un'epifania proustiana in cui la madeleine non è un dolcetto borghese intinto nel tè, ma una umile pasta di fagioli azuki, la cui dolcezza racchiude il peso e la sapienza di una vita intera.

Il palcoscenico è un minuscolo chiosco di dorayaki, sorta di pancake farciti, gestito da Sentaro, un uomo sulla cui anima grava l'ombra di un errore passato, una condanna che lo ha incatenato a un'esistenza di ripetizione meccanica. Il suo è un Purgatorio fatto di gesti svogliati e di una pasta di fagioli industriale, anonima, priva di quella che i giapponesi chiamerebbero kokoro, il cuore, l'essenza. Sentaro è un Sisifo del dorayaki, condannato a spingere ogni giorno lo stesso insapore masso di routine. In questo quadro di grigia rassegnazione irrompe Toku, un'anziana signora dalle mani deformi e dallo sguardo luminoso, che si offre di lavorare per una paga irrisoria. La sua richiesta è semplice: vuole preparare l'An. È l'incontro tra due solitudini, due esistenze marginali che trovano un insperato centro di gravità nella condivisione di un segreto culinario.

Kawase filma il processo di preparazione dell’An con una devozione che rasenta il trascendente. La cinepresa si fa strumento di un'osservazione quasi documentaristica, ma lirica, che ricorda la pazienza certosina di un Ozu nel contemplare gli spazi domestici. A differenza del rigore formale del maestro, però, Kawase utilizza una camera a mano, mobile, che sembra respirare con i personaggi e con gli elementi. Ascoltiamo il mormorio dei fagioli messi a bagno, osserviamo la luce filtrare tra le foglie dei ciliegi in fiore – il komorebi, ossessione visiva della regista – e diventiamo testimoni di una vera e propria ontologia del fagiolo azuki. Toku non cucina: dialoga con la materia. "Devi ascoltare la loro storia," dice a un incredulo Sentaro, riferendosi ai fagioli. "Hanno viaggiato tanto per arrivare fin qui." In questa frase risiede il nucleo filosofico del film, un animismo shintoista che si fonde con un ascetismo zen. La cucina diventa un atto di empatia radicale, un modo per onorare il percorso e la sofferenza di ogni ingrediente, e per estensione, di ogni essere vivente.

Questa celebrazione della materia non è dissimile, nelle sue implicazioni spirituali, da quella che troviamo in Il pranzo di Babette di Gabriel Axel. Lì, un pasto sontuoso diventava un atto di grazia salvifica in grado di redimere un'intera comunità puritana. Qui, la redenzione è più intima, quasi sussurrata. L'An perfetto di Toku non è solo delizioso; è una manifestazione tangibile della sua resilienza, della sua capacità di trasformare il dolore in dolcezza. E il dolore, nel film, ha una causa precisa e terribile: le mani di Toku sono la testimonianza visibile della sua vita da ex paziente affetta dal morbo di Hansen, la lebbra.

Kawase affronta questo tema con una delicatezza e una potenza straordinarie, inserendo la vicenda nel suo preciso e doloroso contesto storico-sociale. Il Giappone, fino al 1996, ha mantenuto in vigore leggi segregazioniste che costringevano i malati di lebbra a un isolamento forzato in sanatori, strappandoli alla società e marchiandoli con uno stigma indelebile. La discriminazione che colpisce Toku quando il suo passato viene a galla non è un mero espediente narrativo, ma il riflesso di una ferita profonda e recente nella coscienza collettiva giapponese. Il film, tuttavia, si astiene da ogni giudizio moralistico o denuncia frontale. La sua è una critica che agisce per via estetica. Le mani di Toku, oggetto di repulsione per i clienti ignoranti, sono filmate da Kawase con la stessa reverenza con cui filma i petali di ciliegio. Sono mani che hanno sofferto, ma sono anche le uniche mani in grado di creare una tale perfezione. È un'applicazione quasi letterale del concetto di wabi-sabi, l'estetica giapponese che trova la bellezza nell'imperfezione, nella transitorietà e nella malinconia (mono no aware). La bellezza più autentica non risiede nella perfezione immacolata, ma nelle cicatrici che raccontano una storia.

In questo, si può azzardare un parallelo inatteso con un capolavoro dell'animazione come Ratatouille della Pixar. In entrambi i film, un essere considerato "impuro" e reietto dalla società – un topo, una ex lebbrosa – si rivela depositario di un dono culinario sublime, capace di scardinare i pregiudizi e di ricordare a tutti che il talento può fiorire nei luoghi più impensati. Ma se il film di Brad Bird è una sinfonia di azione e umorismo, quello di Kawase è una melodia da camera, un canto sommesso sulla dignità.

La relazione che si instaura tra Toku, Sentaro e la giovane studentessa Wakana forma un nucleo familiare atipico e commovente, un rifugio contro l'incomprensione del mondo. Ognuno di loro è, a suo modo, in una prigione: Sentaro in quella del suo debito, Toku in quella del suo passato, Wakana in quella di una famiglia anaffettiva. La preparazione e la vendita dei dorayaki diventano il loro linguaggio comune, il perno attorno a cui le loro vite spezzate possono, per un breve, luminoso momento, ricomporsi. Il viaggio di Sentaro, in particolare, è quello di un uomo che impara a guardare oltre la superficie, a "sentire" anziché a "produrre", un'eco lontana del percorso di redenzione del burocrate Watanabe in Ikiru di Kurosawa, che trova un senso alla propria esistenza solo quando si affaccia sulla soglia della morte.

Le ricette della signora Toku è un film che chiede allo spettatore la stessa pazienza e la stessa attenzione che Toku dedica ai suoi fagioli. È un cinema che rifiuta l'accelerazione, che si prende il tempo di osservare una foglia che cade, che si sofferma sul vapore che sale da una pentola. La sua struttura narrativa è semplice, quasi elementare, ma la sua risonanza emotiva è immensa. Naomi Kawase ci ricorda che dietro ogni gesto, ogni sapore, ogni oggetto, c'è una storia che attende di essere ascoltata. Ci insegna che la vera libertà non consiste nel fuggire dal proprio passato, ma nell'imparare a trasformarlo in qualcosa di dolce, qualcosa da offrire agli altri. Il sapore dell'An di Toku non è solo il risultato di una ricetta, ma il distillato di una vita intera, con tutta la sua amarezza e la sua incontenibile, miracolosa dolcezza. Un capolavoro silenzioso la cui eco persiste a lungo dopo la visione, come il retrogusto di un sapore indimenticabile.

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