Le sette probabilità
1925
Vota questo film
Media: 4.33 / 5
(3 voti)
Regista
Buster Keaton è un punto fisso nell’universo in espansione del cinema, un centro di gravità impassibile attorno a cui ruota il caos cosmico. Se Chaplin è il patetico e commovente vagabondo che chiede empatia al mondo, Keaton è un ingegnere stoico che il mondo lo subisce, lo analizza e infine lo piega alle leggi della fisica e della logica, anche quando queste sembrano impazzite. Le sette probabilità (Seven Chances, 1925) è forse l’apoteosi di questa sua cifra stilistica, un trattato di meccanica applicata alla disperazione umana, un’escalation logaritmica che trasforma una premessa da farsa borghese in un incubo surreale e cinetico. Il film non è semplicemente una commedia; è un algoritmo impazzito, un frattale di sventura la cui formula di base viene ripetuta fino a raggiungere una scala terrificante e sublime.
La premessa, presa in prestito da una commedia teatrale di Roi Cooper Megrue, è di una semplicità quasi archetipica. Jimmie Shannon (Keaton) è un broker sull'orlo della bancarotta, timido e impacciato con le donne, innamorato della sua Mary Jones. Un testamento inaspettato gli offre la salvezza: sette milioni di dollari, a patto che si sposi entro le 19:00 del giorno del suo ventisettesimo compleanno. Quel giorno è oggi. La macchina della catastrofe è innescata. Quello che segue è un cortocircuito tra il desiderio individuale e la convenzione sociale. L’amore, l'atto più intimo e personale, viene brutalmente ridotto a una transazione, a una clausola contrattuale con una deadline. Keaton trasforma questa satira sul matrimonio come istituzione economica, un tema caro a Molière quanto a Jane Austen, in un’indagine sulla natura stessa della scelta e del panico. La sua goffa proposta a Mary, in cui non riesce a pronunciare le parole giuste, è il peccato originale da cui scaturisce l'intero pandemonio. È un momento di pura verità psicologica: l'incapacità di comunicare un sentimento autentico lo condanna a inscenare una parodia grottesca di quel sentimento per sette volte, e poi per centinaia.
La struttura del film è una lezione di sceneggiatura. Dalla prima, fallimentare proposta, Jimmie si lancia in una via crucis comica, proponendosi a ogni donna che incontra. Ogni rifiuto non è solo una gag, ma un colpo di martello ritmico che aumenta la tensione. Keaton qui non è solo attore e regista, è un compositore. La sequenza delle sette proposte al country club è una fuga musicale, dove il tema (la proposta di matrimonio) viene variato con contrappunti sempre più assurdi. C'è la femme fatale, la ragazza ingenua, la centralinista. Ogni interazione è un microcosmo di imbarazzo sociale, un fallimento che alimenta il successivo in un crescendo inesorabile. È qui che emerge la genialità di Keaton: la sua "Great Stone Face" non è assenza di emozione, ma il suo contenitore pressurizzato. Dentro quella maschera impassibile, noi spettatori proiettiamo un'ansia che cresce esponenzialmente, mentre lui rimane il fulcro geometrico di una spirale di follia.
Un dettaglio spesso trascurato, ma fondamentale per una lettura meta-testuale, è la sequenza di apertura, girata in un primitivo processo Technicolor a due strisce. Vediamo Jimmie corteggiare timidamente Mary in un idillio pastorale, tra fiori e cieli colorati. È un'oasi cromatica, un sogno. Non appena la realtà del mondo degli affari e del denaro irrompe nella sua vita, il film precipita nel familiare e rassicurante (per l'epoca) bianco e nero. Questa non è una scelta casuale. È una dichiarazione poetica potentissima: il mondo dell'amore puro, dell'emozione non mediata, è un'utopia a colori; il mondo reale, quello dei contratti, delle scadenze e del pragmatismo disperato, è una grigia e spietata realtà monocromatica. Keaton ci sta dicendo che la missione di Jimmie non è solo quella di trovare una moglie, ma di tentare di recuperare quel colore perduto, di riconciliare il sogno con la necessità.
Tutto questo, però, è solo il preludio all'ultimo atto, una delle più grandi, terrificanti e geniali sequenze d'azione mai concepite. L'idea dell'amico di mettere un annuncio sul giornale, che trasforma una ricerca privata in un evento di massa, è una premonizione quasi profetica dell'era della viralità. La risposta è un'orda. Centinaia di donne in abito da sposa si riversano in chiesa e poi per le strade di Los Angeles, trasformandosi da aspiranti consorti a una folla inferocita e indistinta. Qui il film abbandona la commedia di costume per diventare qualcos'altro: un horror sociologico, un western urbano dove l'eroe non fugge da una posse di pistoleri, ma da un'incarnazione mostruosa del contratto sociale che sta cercando di onorare.
La visione di Keaton che corre, inseguito da un mare bianco di veli e abiti nuziali, è un'immagine che si è impressa nell'inconscio collettivo del cinema. È un'immagine che evoca il surrealismo di Magritte – l'uomo comune sopraffatto da una ripetizione ossessiva di un'icona borghese – ma la infonde di un'energia cinetica puramente americana. La folla non è composta da individui, è una singola entità, una forza della natura come un'alluvione o un'eruzione vulcanica. È il conformismo che si fa carne e insegue l'individualità per divorarla. Jimmie non corre più per soldi, corre per la sua stessa identità. In questa fuga, l'atletismo di Keaton diventa sublime. Ogni salto, ogni schivata, ogni arrampicata è una forma di espressione fisica che trascende la gag. È un balletto esistenziale eseguito sul ciglio dell'abisso.
E poi, quando pensi che l'apice sia stato raggiunto, Keaton alza ulteriormente la posta. La fuga dalla città lo porta in una desolata campagna collinare, dove scatena involontariamente una frana. Ma non una frana di terra e detriti. Una frana di massi. Enormi, sferici, di varie dimensioni, che rotolano giù per il pendio con una logica inesorabile e terrificante. Questa sequenza è puro cinema astratto. La minaccia cessa di essere umana e diventa cosmica. I massi sono l'universo stesso, indifferente, caotico e letale, ridotto alle sue forme platoniche più elementari. Jimmie non sta più scappando dalla società, sta schivando il Fato. La precisione millimetrica con cui Keaton esegue gli stunt, passando a un soffio da pericoli mortalmente reali, è mozzafiato. È Sisifo che, invece di spingere il suo masso, ne è inseguito. È un'immagine di una potenza ontologica devastante: l'uomo moderno, piccolo e solo, che naviga un paesaggio di pericoli impersonali e ineluttabili con l'unica arma a sua disposizione: un perfetto controllo del proprio corpo e del proprio tempismo.
Inserito nel suo contesto, quello dei "Roaring Twenties", Le sette probabilità è uno specchio perfetto dell'epoca: un'era di velocità, di ansia, di boom economico e di nuove, vertiginose pressioni sociali. La corsa frenetica di Jimmie è la corsa di un'intera generazione, intrappolata tra i vecchi valori e un nuovo, spietato materialismo. Ma il genio di Keaton sta nel trascendere il suo tempo. La sua lotta contro una folla che vuole consumarlo e contro un universo che vuole schiacciarlo parla direttamente al nostro presente, all'individuo perso nell'anonimato della folla digitale e nell'indifferenza di sistemi più grandi di lui.
Il lieto fine, con il ricongiungimento in extremis con l'amata Mary, arriva quasi come una tregua necessaria, un momento per riprendere fiato dopo un'apnea durata venti minuti. Ma ciò che rimane impresso non è il bacio finale, ma la corsa. L'immagine di un uomo solo, con il volto impassibile di chi ha visto l'assurdo e ha deciso di non battere ciglio, che attraversa il caos con la grazia di un ginnasta e la determinazione di un filosofo. Le sette probabilità non è solo un capolavoro della comicità, è una sinfonia del panico, una meditazione fisica sulla solitudine e la resilienza, e la dimostrazione che, a volte, l'unica risposta logica a un mondo illogico è correre più veloce che si può.
Attori Principali
Generi
Paese
Galleria








Commenti
Loading comments...
