Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Les Vampires

1915

Vota questo film

Media: 4.17 / 5

(6 voti)

Dimenticate la struttura in tre atti, la psicologia dei personaggi, la coerenza narrativa come la intendiamo noi. L'opera magna di Louis Feuillade, un serial in dieci episodi girato tra il 1915 e il 1916, non è un film, è un'allucinazione che dura quasi sette ore, un poema epico urbano scritto con l'inchiostro nero della notte parigina e il nitrato d'argento della pellicola. È il capostipite non solo del thriller cospirativo, ma dell'idea stessa di narrazione seriale, un'esperienza di "binge-watching" avant la lettre per un pubblico la cui realtà quotidiana era frammentata dall'insensatezza della Grande Guerra.

Mentre l'Europa si stava dissanguando nelle trincee, Feuillade offriva ai parigini un'evasione che, paradossalmente, rifletteva il caos del mondo esterno. La minaccia in Les Vampires non è un nemico esterno, un esercito invasore, ma un cancro interno, una società segreta di criminali borghesi che opera sotto la patina della rispettabilità. I Vampiri non sono creature della notte con zanne e mantelli, ma banchieri, cantanti d'opera, usurai e concierge. Il loro vampirismo è sociale ed economico: prosciugano la linfa vitale della Terza Repubblica attraverso furti, omicidi e ricatti. Il titolo stesso è un geniale depistaggio e una metafora potentissima: il vero mostro non è il soprannaturale, ma la modernità stessa, con la sua amoralità, la sua velocità e la sua capacità di mascherare l'abisso dietro una facciata di normalità.

Al centro di questo vortice narrativo, che si srotola con la logica febbrile di un romanzo d'appendice di Eugène Sue o di un'avventura di Fantômas, troviamo due forze contrapposte. Da un lato, il giornalista Philippe Guérande, il nostro eroe. È l'incarnazione della razionalità borghese, un segugio tenace ma, diciamolo, un po' scialbo. È il nostro punto di riferimento, ma non è lui il cuore pulsante del film. Il suo Watson personale, l'esilarante Mazamette, un ex-Vampiro redento, fornisce un contrappunto comico quasi dickensiano, un'ancora di umanità in un mare di intrighi mortali. Ma il vero motore del film, la sua icona immortale, la sua scarica di energia pura, è Irma Vep.

Interpretata dalla magnetica Musidora, Irma Vep (un anagramma trasparente di vampire) è un archetipo che il cinema avrebbe passato il secolo successivo a cercare di replicare. È la femme fatale primigenia, un lampo di oscurità e desiderio. Quando indossa la sua iconica tuta di seta nera per muoversi, sinuosa e letale, sui tetti di Parigi, non è più un personaggio, è un'idea. È un geroglifico vivente, un'astrazione di pericolo e seduzione. È la Catwoman di Bob Kane con cinquant'anni di anticipo, la Lulu di Pabst senza il fardello della vittimizzazione, un'incarnazione dell'istinto anarchico che i Surrealisti, non a caso, avrebbero idolatrato. André Breton e Louis Aragon vedevano in Les Vampires, e soprattutto in Irma Vep, la bellezza convulsiva, la poesia involontaria che scaturisce dal caso e dal caos, la manifestazione perfetta del meraviglioso che irrompe nella quotidianità. La sua presenza è una frattura nel tessuto del reale, una macchia d'inchiostro che si espande fino a inghiottire lo schermo.

Lo stile di Feuillade, spesso liquidato come "primitivo" o teatrale, è in realtà la chiave della potenza perturbante del film. La sua macchina da presa è un osservatore impassibile, quasi documentaristico. Usa inquadrature fisse, una profondità di campo che permette all'azione di svolgersi su più piani simultaneamente e, soprattutto, gira in location reali. Questa scelta è fondamentale: l'implacabile realismo della Parigi del 1915 (le strade, gli appartamenti, i teatri) fa da sfondo a eventi totalmente folli e incredibili. Un cannone che spunta da una finestra per far saltare in aria una banca, gas soporiferi che filtrano dalle pareti, anelli avvelenati, decapitazioni e fughe rocambolesche. È questo cortocircuito tra il banale e il fantastico a generare un'atmosfera unica, un "realismo magico" che anticipa di decenni il cinema di Buñuel o di Rivette (il cui intero cinema è un omaggio alla psicogeografia parigina di Feuillade). La città non è una semplice scenografia, ma un labirinto di possibilità, un organismo con un sistema circolatorio di passaggi segreti, scantinati e tetti, un personaggio a tutti gli effetti la cui topografia esteriore rispecchia l'intricata mappa interiore dei suoi abitanti.

La narrazione stessa, con le sue digressioni, i suoi personaggi che appaiono e scompaiono, i suoi colpi di scena che sembrano improvvisati sul momento (e probabilmente lo erano, data la velocità della produzione), non è un difetto, ma l'essenza stessa dell'opera. Les Vampires non ha la compattezza di un romanzo di Flaubert, ma l'espansività tentacolare dell'Ulisse di Joyce. È un'opera-mondo che fagocita generi diversi – il poliziesco, la commedia, il thriller, l'avventura – restituendoli in una forma nuova e ibrida. La trama, se se ne volesse rintracciare una, riguarda la lotta di Guérande per smascherare i Vampiri, guidati prima dal Gran Vampiro e poi dal letale Moreno, ma questo è solo il filo rosso che ci guida attraverso una serie di tableaux vivants di straordinaria potenza visiva e immaginifica.

Il lascito di Les Vampires è incalcolabile. Fritz Lang, con il suo Dottor Mabuse, ne ha colto ed elevato l'idea della cospirazione criminale come specchio della patologia sociale della Repubblica di Weimar. Alfred Hitchcock ne ha assorbito la lezione sulla suspense costruita attraverso l'irruzione dell'assurdo nella normalità. L'intero genere del thriller cospirativo, da I tre giorni del Condor a The Parallax View, è in debito con la visione paranoica di Feuillade di una società in cui nessuno è chi sembra e il potere opera nell'ombra. E, naturalmente, la sua influenza sulla serialità televisiva è lapalissiana: le sottotrame che si intrecciano, i cliffhanger alla fine di ogni "episodio", la costruzione di un universo narrativo espanso sono tutti elementi che oggi diamo per scontati, ma che qui trovano una delle loro prime e più pure formulazioni. Olivier Assayas, con il suo film del 1996 Irma Vep e la successiva miniserie, non ha fatto che rendere esplicito questo debito, creando un'opera meta-testuale che riflette sulla persistenza di questo mito, sulla sua carica fantasmatica che ancora oggi ossessiona i cineasti.

Vedere Les Vampires significa abbandonarsi a un sogno lucido, accettare di perdersi in un dedalo di storie che si generano a vicenda senza una meta apparente, se non il puro piacere del racconto. È cinema allo stato nascente, eppure contiene in sé i semi di tutto ciò che sarebbe venuto dopo. È un artefatto storico e, al contempo, un'opera di una modernità sconcertante, un'epopea notturna che ci ricorda che, molto prima dei supereroi e degli universi condivisi, c'era una donna in calzamaglia nera che danzava sui tetti di Parigi, incarnando la sublime e terrificante poesia del caos.

Paese

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7

Commenti

Loading comments...