Lilja 4-ever
2002
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Regista
Certi film non si limitano a raccontare una storia; incidono un solco nella memoria dello spettatore, diventando una sorta di cicatrice psichica, un memento permanente della capacità del cinema di farsi testimone dell'indicibile. Lilja 4-ever di Lukas Moodysson è uno di questi film: un'opera che non si guarda, ma si subisce, un'esperienza cinematografica che si colloca al di là del piacere estetico per diventare un atto morale, un pugno nello stomaco sferrato con la precisione di un chirurgo e la furia di un profeta. Abbandonate ogni speranza, voi ch'entrate, perché il mondo di Lilja è un girone dantesco senza Virgilio, una discesa agli inferi post-sovietici da cui non è previsto ritorno.
Siamo in un luogo senza nome dell'ex Unione Sovietica, un non-luogo che è sineddoche di un intero impero crollato su se stesso, lasciando dietro di sé macerie non solo architettoniche ma soprattutto umane. I casermoni grigi, figli deformi dell'utopia costruttivista, non sono semplice scenografia, ma la manifestazione fisica di un vuoto spirituale e ideologico. In questo paesaggio che sembra dipinto da un Anselm Kiefer sotto sedativi, si muove Lilja (una Oksana Akinshina la cui performance trascende la recitazione per diventare pura, straziante immanenza). È un'adolescente a cui il destino, o più precisamente la Storia, ha negato tutto: un futuro, una famiglia, persino la dignità di un'infanzia. La sequenza iniziale, un'esplosione di energia disperata sulle note martellanti di "Mein Herz brennt" dei Rammstein, è un falso indizio, un'illusione di fuga che il film si preoccuperà di smantellare con metodica crudeltà. Quella corsa affannata non è verso la libertà, ma è il prologo di una caduta.
Moodysson, che ci aveva abituato alla tenerezza agrodolce di Fucking Åmål e alla caotica utopia comunitaria di Together, qui cambia registro in modo radicale, quasi violento. Abbraccia un realismo che deve tanto al Dogma 95 (sebbene non ne rispetti i crismi) quanto al naturalismo letterario di un Émile Zola. La sua macchina da presa a mano, nervosa e febbrile, non è un vezzo stilistico, ma una dichiarazione d'intenti: si attacca a Lilja, ne spia ogni sussulto, ne registra ogni umiliazione senza mai concederle o concederci la distanza consolatoria di un campo lungo o di una composizione patinata. Siamo costretti a una prossimità insopportabile, diventiamo complici involontari di un martirio laico che si consuma sotto i nostri occhi. La fotografia desaturata, dominata dai grigi e dai marroni fangosi, dipinge un mondo cromaticamente ed emotivamente esangue, dove l'unico sprazzo di colore è il rosso del sangue o quello, illusorio, di una lattina di Coca-Cola, feticcio di un Occidente tanto agognato quanto predatore.
La narrazione di Lilja 4-ever è una catabasi inarrestabile, un'anabasi al contrario. Ogni speranza è un inganno, ogni mano tesa nasconde un artiglio. La madre che parte per l'America con un nuovo compagno non è una figura tragica, ma l'incarnazione di un egoismo crudo, quasi animalesco. L'abbandono è sancito da un atto burocratico: la rinuncia alla patria potestà. Da quel momento, Lilja diventa un fantasma, un'orfana della Storia, invisibile per un sistema sociale che non esiste più. La sua unica ancora di salvezza è l'amicizia con il piccolo Volodja, un altro scarto della società, un bambino che sembra uscito da una novella di Dostoevskij, con i suoi occhi troppo grandi e la sua anima troppo vecchia. Il loro legame è l'unico barlume di pura umanità in un universo di transazioni. Giocano a basket, si scambiano sogni infantili, disegnano ali d'angelo, cercando di ritagliarsi uno spazio di innocenza in un mondo che l'ha già divorata.
Ma il film di Moodysson non è un semplice dramma sociale. È un'opera profondamente spirituale, quasi una Passione in chiave post-industriale. Lilja non è solo una vittima del traffico di esseri umani; è una santa profana, un'agnella sacrificale immolata sull'altare del nuovo capitalismo globale. La sua discesa nella prostituzione non è rappresentata con morbosità, ma con la secca brutalità di una condanna. L'arrivo di Andrei, il "principe azzurro" che le promette una nuova vita in Svezia, è la tentazione nel deserto, l'illusione definitiva. E la Svezia, vista dagli occhi di Lilja, non è la socialdemocrazia perfetta, il paradiso del welfare, ma un inferno ancora più asettico e spietato. L'appartamento in cui viene rinchiusa a Malmö è una prigione più pulita, ma non meno terribile, dei palazzoni fatiscenti da cui proviene. Qui l'orrore non è più caotico e disperato, ma organizzato, metodico, borghese.
È in questo frangente che il film compie il suo scarto più audace, trascendendo il realismo per approdare a un lirismo funebre e visionario. Dopo il suicidio di Volodja, il ragazzo le riappare come un angelo custode, un Virgilio spettrale che la accompagna nel suo calvario. Queste apparizioni, con le loro ali disegnate a mano e la loro tristezza infinita, non sono un cedimento al fantastico, ma la visualizzazione dell'ultimo, disperato rifugio della mente di Lilja. Sono la prova che, anche quando il corpo è violato e venduto, l'anima cerca disperatamente una forma di trascendenza, un brandello di grazia. La colonna sonora, che alterna la violenza teutonica dei Rammstein alla malinconia eterea di Vivaldi o alle partiture originali di Nathan Larson, amplifica questa dualità tra la brutale realtà materiale e il fragile mondo interiore della protagonista.
Il finale è inevitabile e, nella sua tragicità, quasi liberatorio. Il salto di Lilja da un cavalcavia non è una sconfitta, ma l'unico atto di autodeterminazione che le sia rimasto. È un gesto di rifiuto totale di un mondo che l'ha usata e gettata via. E nell'ultimo istante, prima che lo schermo diventi nero, la vediamo finalmente raggiungere il suo amico Volodja, entrambi con le ali, finalmente liberi sul tetto di un palazzo. Non è un lieto fine, ma un requiem. Moodysson non offre consolazione, non suggerisce soluzioni. Ci sbatte in faccia una realtà e ci lascia con una dedica finale che è un atto d'accusa universale: "to the millions of children exploited around the world".
Lilja 4-ever è un'opera che fa male, che lascia un sapore amaro in bocca e un peso sul cuore. È un film necessario proprio perché insopportabile. Si erge come un monumento oscuro e potente, un'icona terribile per la nostra epoca, che ci ricorda come, dietro le vetrine scintillanti della globalizzazione e le promesse di un mondo migliore, si nascondano abissi di sofferenza che preferiremmo ignorare. Non è un film da "consigliare", ma un'esperienza da affrontare, un esame di coscienza a cui ogni spettatore che si definisca tale dovrebbe, prima o poi, sottoporsi. Un capolavoro crudele, essenziale, indimenticabile. Per sempre.
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