Limite
1931
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Regista
Un'imbarcazione alla deriva. Due donne, un uomo. Attorno a loro, l'orizzonte, la linea definitiva e irraggiungibile che dà il titolo al film: Limite. È un confine fisico, il punto in cui il mare bacia il cielo, ma è soprattutto una frontiera ontologica, la soglia invalicabile dell'esistenza umana. Mário Peixoto, poeta ventiduenne che si improvvisa cineasta per la sua unica, folgorante opera, non ci invita a bordo per raccontarci una storia di naufraghi. Ci imprigiona, piuttosto, in uno stato d'animo. Ci costringe a condividere un Purgatorio liquido, dove il tempo cessa di essere lineare per diventare un gorgo di memorie frammentate, un flusso di coscienza visivo che ha più in comune con "La terra desolata" di T.S. Eliot che con qualsiasi dramma coevo.
Girato nel 1931, in un Brasile che si affacciava all'era Vargas e in un mondo cinematografico stretto nella morsa della transizione al sonoro, Limite è un anacronismo deliberato, un monumento al cinema muto eretto proprio mentre quel linguaggio stava esalando l'ultimo respiro. Peixoto rifiuta il sonoro non per limiti tecnici, ma per una precisa scelta estetica. Il silenzio del film non è assenza di suono, ma una condizione esistenziale. È il silenzio che precede la morte, il silenzio di un universo indifferente, rotto solo dalla partitura musicale (che spazia da Satie a Borodin) che agisce non da commento, ma da ulteriore strato emotivo, un diapason che accorda le nostre sinapsi alla disperazione ritmica delle immagini.
La struttura è un montaggio associativo che farebbe impallidire Pudovkin per la sua radicale libertà poetica. Non c'è la dialettica intellettuale di Ėjzenštejn, qui; c'è una sinfonia tellurica. La visione del volto stanco di una delle donne evoca, per associazione, un flashback della sua vita passata: la fuga da un marito opprimente e da una vita scandita dal ritmo alienante di una macchina da cucire. Il movimento circolare dell'ago diventa il moto perpetuo e senza scopo delle onde. Le manette ai polsi dell'uomo, visibili a tratti, scatenano il ricordo di una prigione, di un'evasione che lo ha condotto solo a un'altra, più vasta, cella a cielo aperto. La terza passeggera rivive un amore perduto, un legame spezzato che la lascia svuotata. Ogni flashback è una narrazione di fuga da un "limite" – sociale, legale, emotivo – che si risolve in un fallimento, un ritorno al punto di partenza, all'immobilità esistenziale della barca.
Peixoto filma con una sensibilità per la texture quasi feticistica. La grana della pellicola, la superficie corrugata del legno della barca, la pelle bagnata dal sudore e dall'acqua salata, la trama di un vestito. La sua macchina da presa, spesso affidata al genio fotografico di Edgar Brazil, non si limita a inquadrare; palpa, esplora, si sofferma sui dettagli con un'insistenza che trasforma l'oggetto in simbolo e il simbolo in esperienza tattile. Un primo piano non è solo un volto, è una mappa di sofferenza. L'inquadratura di un pesce che boccheggia sulla coperta della barca è un memento mori di una brutalità silenziosa e sconcertante. È il concetto di fotogenia di Jean Epstein spinto alle sue estreme conseguenze: la capacità del cinema di rivelare l'anima segreta delle cose, di strappare un istante alla tirannia del tempo e caricarlo di un peso eterno.
L'analogia più audace, forse, non è con il cinema, ma con la filosofia. Limite è un trattato esistenzialista prima che l'esistenzialismo avesse un nome. È "Il mito di Sisifo" di Camus messo in scena un decennio prima della sua stesura, con l'oceano al posto della montagna e il remo al posto del masso. I tre protagonisti sono condannati a un'azione ripetitiva e insensata, intrappolati in un presente eterno dal quale l'unica via d'uscita è il ricordo di un passato altrettanto claustrofobico. Non c'è speranza di salvezza, non c'è un dio ex machina, non c'è terra all'orizzonte. C'è solo l'accettazione di una condizione assurda, una lucidità disperata che si manifesta negli sguardi vuoti, persi verso quel limite che è, al contempo, promessa e negazione.
La storia produttiva del film è essa stessa un mito. Finanziato da Peixoto stesso e da alcuni amici, girato in condizioni precarie lungo la costa vicino a Rio de Janeiro, il film fu proiettato una sola volta in una sessione privata e poi sporadicamente in cineclub, diventando una sorta di Sacro Graal per i cinefili brasiliani. Orson Welles, durante il suo sfortunato soggiorno brasiliano per It's All True, ebbe modo di vederlo e pare ne rimase folgorato. Per decenni, Limite è stato un film fantasma, un capolavoro la cui fama era inversamente proporzionale alla sua visibilità, preservato quasi per miracolo dalla decomposizione e restaurato solo molti anni dopo. Questa sua esistenza precaria, quasi clandestina, ne alimenta l'aura di opera maledetta e sublime, un monolite nero piantato nel deserto del cinema brasiliano pre-Cinema Novo, senza antenati né eredi diretti.
In un certo senso, Limite è un film meta-testuale sulla condizione stessa dello spettatore cinematografico. Noi, come i personaggi, siamo immobili nel buio, prigionieri di un flusso di immagini che non controlliamo. Siamo alla deriva in un mare di fotogrammi, aggrappati a frammenti di narrazione nella speranza di trovare un approdo di significato. Ma Peixoto ci nega questa consolazione. Il film non si "risolve". Termina. E nel suo terminare, ci abbandona con la sensazione lancinante che l'esperienza non sia finita, che quel moto ondulatorio, quella disperazione calma, continuino a risuonare dentro di noi. È un'opera che non chiede di essere capita, ma di essere subita. Un'immersione totale in uno stato di crisi permanente che era quello dell'uomo moderno del primo Novecento e che, forse, non ha mai smesso di essere il nostro.
A differenza del surrealismo onirico di un Buñuel, che cercava di far esplodere le sovrastrutture borghesi con l'inconscio, Limite non ha un'agenda politica o sociale. La sua è una rivoluzione puramente formale e spirituale. È un atto di fede assoluta nel potere dell'immagine pura, nella sua capacità di trasmettere concetti e sensazioni che la parola non può toccare. È un poema visivo di una bellezza austera e crudele, un'esperienza cinematografica totalizzante che ti lascia senza fiato, svuotato e, paradossalmente, arricchito. È la prova che a volte, per raggiungere le vette più alte dell'arte, basta un solo film, purché quel film osi spingersi fino al limite estremo del proprio linguaggio e guardare l'abisso che si trova oltre. E non distogliere lo sguardo.
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