L'infanzia di Ivan
1962
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Regista
Un fanciullo sospeso tra i rami di una betulla, in un volo estatico che sa di libertà assoluta. Un fanciullo che emerge da una palude limacciosa, spettro febbrile dagli occhi brucianti d’odio. In questa dicotomia irrisolvibile, in questo strappo tra il sogno e l’incubo, risiede il cuore pulsante e la grandezza seminale de L’infanzia di Ivan, esordio folgorante di un ventinovenne Andrej Tarkovskij che già scolpisce nel tempo le sue ossessioni, la sua grammatica visiva, il suo sguardo metafisico. Siamo nel 1962, in pieno Disgelo chrusceviano, e il cinema sovietico, dopo anni di realismo socialista monumentale e celebrativo, sta cercando nuove vie per raccontare il trauma archetipico della Grande Guerra Patriottica. Se Quando volano le cicogne di Michail Kalatozov (1957) aveva rotto il ghiaccio con un lirismo soggettivo e passionale, Tarkovskij compie un passo ulteriore, più radicale: interiorizza il conflitto fino a farlo coincidere con la psiche devastata del suo protagonista.
Il film, ereditato da un altro regista e trasformato in qualcosa di unicamente tarkovskiano, non è un racconto di guerra. È un poema cinematografico sulla morte dell’innocenza, un requiem per un’anima che la Storia ha abortito prima ancora che potesse sbocciare. Ivan non è un bambino. È un simulacro, un golem di dodici anni animato da un unico, tellurico desiderio: la vendetta. Orfano, testimone della morte della madre e della sorella per mano dei nazisti, si muove sul fronte orientale come un fantasma agile e inafferrabile, un esploratore preziosissimo per l’Armata Rossa grazie alla sua statura e alla sua determinazione ferina. I soldati adulti che lo circondano – il capitano Kholin, il tenente Galtsev – lo guardano con un misto di ammirazione, sgomento e un disperato istinto protettivo. Vorrebbero spedirlo nelle retrovie, in una scuola militare, per restituirgli un barlume di quella normalità che a lui è preclusa per sempre. Ma Ivan rifiuta. La sua infanzia non è un luogo da recuperare, ma un paradiso perduto, accessibile solo attraverso i sogni.
E sono proprio le sequenze oniriche a elevare il film dalla cronaca bellica alla poesia universale. Girate con una luminosità abbagliante, quasi sovrannaturale, in un bianco e nero che diventa argenteo, esse rappresentano l'unica dimensione in cui Ivan è ancora un bambino. Lo vediamo con la madre accanto a un pozzo (l'acqua, elemento tarkovskiano per eccellenza, già simbolo di purificazione, memoria e soglia tra i mondi), su una spiaggia baciata dal sole, o su un carro carico di mele sotto una pioggia improvvisa e gioiosa. Sono frammenti di un’esistenza edenica, di un passato irrecuperabile che contrasta in modo lancinante con la realtà del fronte: un paesaggio crepuscolare e spettrale, fatto di trincee allagate, alberi scheletrici che sembrano artigli protesi verso un cielo plumbeo, e il perenne stillicidio dell'acqua che gocciola nel bunker. La fotografia di Vadim Yusov non si limita a registrare, ma incide la pellicola con la precisione di un bulino su rame, restituendo la materialità tattile del fango, della corteccia bagnata, della lana ruvida delle uniformi. È un mondo espressionista, che sembra emergere più dall'interiorità dei personaggi che dalla realtà oggettiva, un paesaggio dell'anima che ricorda certe atmosfere di F.W. Murnau, dove la natura stessa partecipa al dramma umano.
Ivan si muove in questo inferno come un piccolo Amleto del fronte orientale. Non è mosso da ideologia o patriottismo, ma dal fantasma della madre, da un lutto che non può essere elaborato ma solo vendicato. La sua determinazione non ha nulla di eroico; è la necessità esiziale di chi non ha più nulla da perdere. È questo a renderlo così terrificante e commovente. L'attore, il giovanissimo e prodigioso Nikolaj Burljaev, riesce a comunicare questa possessione con uno sguardo di una intensità quasi insostenibile, un volto che è già una maschera tragica.
Tarkovskij orchestra il film su un contrappunto costante. Il lirismo dei sogni contro la brutalità delle missioni di ricognizione. Il silenzio carico di tensione della palude attraversata nottetempo contro il calore quasi domestico delle scene nel bunker. E, in una delle sequenze più potenti e meta-testuali, la cultura contro la barbarie. In una chiesa diroccata, il tenente Galtsev scopre delle incisioni rinascimentali tedesche, tra cui i Cavalieri dell'Apocalisse di Albrecht Dürer. Mentre fuori infuria l'apocalisse reale, i soldati sovietici contemplano la sua rappresentazione artistica, creata secoli prima proprio da quella cultura che ora identificano con il nemico. È un momento di vertiginosa riflessione sulla ciclicità della violenza e sulla capacità dell'arte di trascendere la contingenza storica per parlare di verità universali. Un gesto intellettuale purissimo, che anticipa le complesse digressioni filosofiche di Andrei Rublev.
Azzardando un parallelismo, l'Ivan di Tarkovskij sta alla rappresentazione della guerra come il Gregor Samsa di Kafka sta alla condizione umana moderna. Entrambi subiscono una metamorfosi irreversibile che li aliena dal mondo "normale". Ivan non è più un homo sapiens, ma un homo bellicus, una creatura specializzata e votata a un unico scopo, la cui umanità residua affiora solo nell'inconscio. È un personaggio assoluto, quasi mitologico, come il Capitano Achab di Melville ossessionato dalla sua balena bianca, con la differenza che la balena di Ivan è un intero esercito, un'intera ideologia che gli ha divorato l'esistenza.
Il finale è un colpo secco, privo di qualsiasi catarsi. La guerra è finita. Siamo a Berlino, tra le rovine della Cancelleria del Reich. Un giovane Galtsev, ormai indurito dalla vittoria, passa in rassegna i documenti dei giustiziati. E lì, tra le carte, trova la pratica di Ivan. Una fotografia segnaletica, il volto teso e fiero, e la gelida notazione burocratica: "Esecuzione". Tarkovskij non ci mostra la morte di Ivan. Ce la sbatte in faccia attraverso il più impersonale dei reperti, un pezzo di carta. L'ultima immagine che abbiamo di lui è quella, gioiosa e vitale, del suo sogno, mentre corre sulla spiaggia inseguendo la sorella. Lo stacco tra l'immagine della vita e la cronaca della morte è assoluto, un abisso che lo spettatore deve colmare da solo. La vittoria ha un prezzo, e quel prezzo è un'intera generazione, un'intera infanzia sacrificata sull'altare della Storia.
L’infanzia di Ivan non è solo il primo capolavoro di un maestro. È un'opera che, pur contenendo in nuce tutto il cinema tarkovskiano a venire – la spiritualità, la centralità della memoria, l'elemento acquatico, la dialettica tra natura e rovina –, possiede una compattezza narrativa e una tensione quasi da thriller che il regista abbandonerà nelle sue opere successive, più meditative e dilatate. È un film che ancora dialoga con le convenzioni del genere per scardinarle dall'interno. Un'opera di una bellezza straziante e di una lucidità spietata, che rimane uno dei più potenti atti d'accusa mai girati non tanto contro una guerra specifica, ma contro l'idea stessa che la violenza possa mai generare qualcosa di diverso da un deserto dell'anima. Un sigillo indelebile nella storia del cinema, che ci ricorda come l'inferno più spaventoso sia vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino che ha smesso di sognare.
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