Lo spione
1962
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Regista
Un cappello, prima di tutto. E poi una domanda, lapidaria come un epitaffio inciso prima del tempo: "Bisogna scegliere. Morire... o mentire?". Con questo dilemma esistenziale, che suona come il prologo di una tragedia greca riscritta da Albert Camus in una notte insonne, Jean-Pierre Melville spalanca le porte del suo universo. Lo spione (Le Doulos, 1962) non è semplicemente un film; è un trattato di geometria morale applicata al noir, un labirinto di specchi dove ogni riflesso è un inganno e la verità è una pallottola in arrivo, sempre troppo tardi.
Melville, il più americano dei registi francesi e al contempo il più ieratico sacerdote del polar, costruisce qui uno dei suoi templi più ermetici e affascinanti. Il suo cinema è una liturgia. I suoi gangster non sono criminali, sono monaci di un ordine oscuro, officianti di un rito la cui unica fede è il Codice. In questo mondo crepuscolare di trench, sigarette e appartamenti spogli, ogni gesto è sacramentale: il modo in cui si indossa un cappello, si controlla una pistola, si attende in silenzio. Melville non filma azioni, filma procedure. La lunga, quasi muta sequenza in cui Maurice Faugel (Serge Reggiani) prepara il suo colpo è cinema puro, una coreografia della fatalità dove ogni oggetto – la fiamma ossidrica, la cassaforte, la planimetria – diventa un altare sacrificale. È un’estetica che anticipa la precisione glaciale di Michael Mann, ma la priva di ogni scintilla high-tech per immergerla in una polvere esistenziale, densa e senza scampo.
Al centro di questo meccanismo a orologeria destinato a esplodere c'è lui, Silien, incarnato da un Jean-Paul Belmondo che compie un’operazione meta-cinematografica sbalorditiva. L'attore-simbolo della Nouvelle Vague, l'icona della spontaneità anarcoide di Fino all'ultimo respiro, viene qui imbrigliato, costretto dal demiurgo Melville a indossare una maschera di ambiguità impenetrabile. Il suo corpo vibrante è congelato in una stasi calcolatrice, il suo sorriso beffardo si tramuta in un ghigno indecifrabile. È amico o traditore? È un "doulos", un informatore della polizia (letteralmente, un "cappello", in gergo), o la vittima di un malinteso cosmico? Per tutta la durata del film, Melville ci nega una risposta, costringendoci a un'estenuante ginnastica ermeneutica. Silien è lo Stregatto di un Paese delle Meraviglie intriso di piombo e nichilismo, un operatore quantistico la cui vera natura collassa in uno stato definito solo nell'istante finale. Questa tensione tra l'essenza dell'attore e la forma del personaggio è una delle più grandi intuizioni del film, un cortocircuito che genera una corrente di fascino perpetuo.
La struttura narrativa de Lo spione abbandona la linearità per abbracciare l'architettura di un frattale. È un film che si ripiega costantemente su se stesso, dove ogni nuova informazione non chiarisce la precedente, ma la complica, aprendo nuove voragini di dubbio. L'adattamento del romanzo di Pierre Lesou è un pretesto: Melville lo usa come uno scheletro su cui innestare la sua visione del mondo, una visione dove la lealtà e il tradimento non sono opposti, ma facce della stessa, consunta medaglia. Il destino dei personaggi è già scritto, non nelle stelle, ma nelle convenzioni del genere che Melville stesso ha contribuito a codificare. Essi non agiscono, vengono agiti. Sono prigionieri non tanto di una cella, quanto del loro stesso archetipo. In questo, Lo spione dialoga a distanza con il determinismo del noir americano di un Fritz Lang o di un Robert Siodmak, ma lo spoglia di ogni psicologismo. Qui non ci sono traumi passati o donne fatali a giustificare la caduta; c'è solo un ineluttabile allineamento di eventi, freddo e preciso come l'otturatore di una macchina fotografica.
La fotografia in bianco e nero di Nicolas Hayer è una lezione magistrale su come scolpire lo spazio con la luce e, soprattutto, con l'assenza di luce. Le ombre non nascondono, rivelano la vera essenza di questo mondo: un vuoto morale che inghiotte ogni cosa. Le inquadrature sono composte con un rigore pittorico che evoca le nature morte fiamminghe: ogni oggetto è al suo posto, ogni linea di fuga conduce verso un punto di non ritorno. E poi c'è Parigi. Non la città da cartolina, ma un non-luogo metafisico, un dedalo di strade bagnate e interni claustrofobici che potrebbe essere ovunque e in nessun tempo. È la stessa Parigi astratta e mentale de Le Samouraï, una scenografia dell'anima.
Inserito nel suo contesto, Lo spione è un'opera singolare. Esce nel pieno fermento della Nouvelle Vague, ma ne rifiuta l'estetica sbrigliata e l'improvvisazione. Melville è il padrino che osserva i figli ribelli con un misto di affetto e distacco, preferendo la perfezione formale del classicismo alla rottura delle regole. Eppure, sotto la superficie levigata, il film è profondamente moderno. La sua decostruzione della narrazione, la sua riflessione sul ruolo e sull'identità, lo rendono un precursore di molto cinema a venire. C'è un'eco della sua atmosfera sospesa nel cinema di Aki Kaurismäki, una traccia della sua violenza stilizzata in quello di Quentin Tarantino, che non a caso battezzò la sua casa di produzione "A Band Apart", omaggio a un altro capolavoro melvilliano.
Il film è anche una creatura del suo tempo, la Francia post-bellica ancora attraversata dai fantasmi della Collaborazione e della Resistenza. Senza mai essere esplicito, Lo spione mette in scena una società fondata sul sospetto, dove la domanda "da che parte stai?" è una questione di vita o di morte. La figura dell'informatore, del traditore, era una ferita ancora aperta nel tessuto sociale francese, e Melville la traspone nel codice gangsteristico, universalizzandola. Non emette giudizi, si limita a constatare, con la lucidità di un chirurgo, la fragilità dei legami umani di fronte alla necessità della sopravvivenza.
Rivedere Lo spione oggi significa immergersi in un meccanismo perfetto, un cristallo nero la cui bellezza risiede nella sua spietata coerenza. Ogni pezzo va al suo posto nel finale, con una chiusura del cerchio che è tanto soddisfacente a livello intellettuale quanto devastante a livello emotivo. L'ultima inquadratura, con quel telefono che squilla a vuoto, è il sigillo definitivo su un mondo in cui la comunicazione è impossibile e la solitudine è l'unica, autentica verità. È la quadratura del cerchio del noir, un'opera che ne esalta i cliché per trascenderli, trasformando un racconto di malavita in una cupa poesia sulla condizione umana. Una gemma di nero assoluto, tagliata con la precisione di un diamante e la freddezza di una lama di rasoio.
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