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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

L'ora del lupo

1968

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Un proiettore si accende. Un ciak. Voci fuori campo. Per un attimo, lo spettatore del 1968 potrebbe aver pensato a un errore del proiezionista. Invece no. È Ingmar Bergman che, con un gesto di superba e crudele onestà meta-cinematografica, ci avverte: state per assistere non a una storia, ma alla dissezione di un'anima. Quello che vedrete è un reperto, un documento filmico assemblato dai frammenti di un disastro. "L'ora del lupo" non è un film che si guarda; è un abisso che, pazientemente, ricambia lo sguardo, attendendo il momento in cui saremo abbastanza vulnerabili da cadervi dentro.

Sulla remota isola di Frisia (leggi: la Fårö bergmaniana, il suo personale Skull Island psicologico), il pittore Johan Borg (Max von Sydow) e sua moglie incinta, Alma (Liv Ullmann), cercano un rifugio dalla civiltà. Ma come sa ogni lettore di Edgar Allan Poe o H.P. Lovecraft, l'isolamento non è una cura per la mente, bensì una lente d'ingrandimento. Il vuoto esteriore amplifica il rumore interiore fino a renderlo assordante. Johan non è perseguitato da fantasmi esterni, ma dalla sua stessa, ipertrofica sensibilità d'artista, che ha trasmutato le sue ansie, le sue colpe e le sue umiliazioni in un bestiario di "demoni" fin troppo tangibili.

Qui Bergman orchestra il suo unico, vero film dell'orrore. Ma si tratta di un orrore che non ha nulla a che vedere con il gotico della Hammer o con i mostri della Universal. È un orrore esistenziale, scandinavo, protestante nel suo rigore e nella sua ossessione per il peccato. L'orrore di Bergman è la consapevolezza che il confine tra l'io e l'altro, tra il sogno e la veglia, tra la creazione e la follia, è una linea tracciata sulla sabbia. "L'ora del lupo" – quel momento liminale tra le tre e le cinque del mattino, ci spiega la didascalia, "in cui la maggior parte della gente muore, in cui il sonno è più profondo, in cui gli incubi sono più reali" – è la sineddoche dell'intera condizione umana di Johan: un'esistenza vissuta perennemente in quella faglia crepuscolare.

I "demoni" che abitano il castello sull'isola non sono spettri nel senso classico. Sono piuttosto l'incarnazione grottesca e parodistica dell'alta società, dell'establishment culturale che l'artista desidera e disprezza in egual misura. Sono critici d'arte, mecenati, vecchi amanti; sono il pubblico che divora l'artista, vampirizzandone l'anima per un brivido momentaneo. La loro natura è rivelata in una delle scene più agghiaccianti e surreali della storia del cinema: la cena al castello. Sembra un'anticipazione allucinata del "Festen" di Vinterberg, filtrata attraverso lo specchio deformante di Goya e dei suoi "Capricci". Le conversazioni sono lame sottili, i complimenti sono insulti velati, le risate sono il suono di ossa che si spezzano. Quando la marchesa si toglie letteralmente la faccia, staccandosi gli occhi di vetro e la dentiera, Bergman non ci sta mostrando un mostro, ma la verità: l'orrore non è la maschera, ma ciò che la maschera nasconde e, al contempo, rappresenta. L'artificio sociale è l'essenza stessa di questi cannibali culturali.

La struttura del film è un capolavoro di manipolazione narrativa. Inizia come un dramma da camera, quasi un sequel spirituale di "Persona" (girato, non a caso, sulla stessa isola, con la stessa troupe e gli stessi attori, quasi a suggerire che l'universo di Johan e Alma sia l'inferno da cui fuggivano le protagoniste del film precedente). Alma, il nostro punto di ancoraggio alla realtà, legge il diario del marito, e noi con lei. Attraverso questo meccanismo, Bergman ci costringe a condividere la prospettiva di Johan, a vedere il mondo attraverso i suoi occhi febbricitanti. I flashback, gli schizzi inquietanti, le apparizioni improvvise non sono più semplici espedienti, ma diventano la nostra stessa esperienza percettiva. Quando Johan racconta ad Alma l'episodio del ragazzo che uccide sulla scogliera – un atto di violenza tanto repulsivo quanto ambiguo nella sua realtà fattuale – non stiamo solo ascoltando una confessione. Stiamo partecipando al crollo, diventando complici del suo segreto indicibile, che sia esso reale o immaginato.

Von Sydow offre una delle performance più coraggiose e fisicamente provanti della sua carriera. Il suo Johan Borg è un San Sebastiano dell'arte moderna, trafitto non da frecce ma da visioni. Il suo corpo lungo e scarno sembra una corda di violino tesa fino al punto di rottura, il suo volto un paesaggio eroso dall'angoscia. Accanto a lui, Liv Ullmann è la personificazione della devozione e della sanità, un faro di luce che cerca disperatamente di penetrare una nebbia sempre più fitta. La tragedia di Alma è forse ancora più grande di quella di Johan: lei non solo assiste alla disintegrazione dell'uomo che ama, ma inizia a esserne contagiata, a vedere le sue stesse paure riflesse nei racconti di lui, fino a confessare che l'amore li ha resi così simili da condividere persino i demoni. È l'ultima, esiziale affermazione del vampirismo affettivo: l'amore non salva, ma condanna a una dannazione condivisa.

Uscito nel 1968, un anno di rivoluzioni, speranze e violenze, "L'ora del lupo" appare oggi come un'opera quasi profeticamente disconnessa e, proprio per questo, universale. Mentre il mondo fuori bruciava di ideologie e lotte politiche, Bergman si ritirava nella sua isola per mappare un territorio ancora più insidioso: la geografia interiore. Eppure, il film respira l'aria del suo tempo. La crisi di Johan è anche la crisi dell'artista borghese, dell'intellettuale che si scopre impotente e obsoleto di fronte a un mondo che non riesce più a interpretare, e che finisce per essere divorato dalle vestigia decadenti di un passato aristocratico (i demoni del castello). È il canto del cigno dell'individualismo romantico, un requiem per l'idea che l'arte possa redimere. In Johan Borg, l'arte non redime; consuma, isola e infine distrugge.

Visivamente, il film è un incubo in bianco e nero scolpito da Sven Nykvist. Le ombre sono abissi, i volti sono maschere di cera illuminate da una luce spettrale. La celebre sequenza finale, con Johan che fugge nella foresta inseguito dai suoi tormentatori, è un pezzo di cinema espressionista puro, un "Gabinetto del Dottor Caligari" naturalistico che anticipa di decenni l'estetica del found footage horror di "The Blair Witch Project". Ma dove il film americano giocava con la paura del buio e del non visto, Bergman ci mostra tutto, con una chiarezza che è persino più terrificante. Il demone-uccello, l'uomo con il cappello, il volto di Lindhorst che si deforma in un ghigno: non sono creature della notte, ma prodotti della psiche di Johan, e per questo infinitamente più reali.

"L'ora del lupo" è un film che non offre catarsi. Non c'è spiegazione, non c'è salvezza. Finisce come inizia: con un'assenza. Johan svanisce. Alma rimane, segnata per sempre. Il film si interrompe. Il proiettore, metaforicamente, si spegne. Ci lascia soli, nel buio della sala, a interrogarci sui nostri stessi demoni, su quella sottile membrana che separa la nostra realtà quotidiana dall'ora del lupo che attende, paziente, dentro ognuno di noi. È un'opera spietata, un atto di terrorismo psicologico mascherato da film d'autore, ed è precisamente per questo che la sua visione è un'esperienza tanto necessaria quanto devastante. Un chiodo nero piantato a martellate nel cuore del canone cinematografico.

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