Love Streams - Scia d'amore
1984
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Regista
Un flusso di coscienza filmato, un’emorragia emotiva che non cerca la sutura. Affrontare Love Streams di John Cassavetes significa abbandonare ogni pretesa di narrazione convenzionale e immergersi in un torrente di umanità disperata, sgraziata e, proprio per questo, di una purezza quasi insostenibile. Se il cinema è spesso l'arte di costruire mondi, quello di Cassavetes è l'arte di demolirli, di scrostare l'intonaco della finzione per mostrare le crepe strutturali dell'anima. E in questo film del 1984, testamento spirituale e canto del cigno del suo cinema più intransigente, le crepe diventano voragini da cui fuoriesce un amore tanto devastante quanto necessario.
La pellicola ci getta, senza preamboli, nelle vite parallele e destinate a collidere di due fratelli: Robert Harmon (interpretato dallo stesso Cassavetes, con una stanchezza fisica che la malattia incipiente rendeva tragicamente reale) e Sarah Lawson (una Gena Rowlands che trascende il concetto di recitazione per approdare a quello di possessione). Robert è uno scrittore di successo, un bon vivant circondato da un harem di giovani donne nella sua casa-labirinto di Los Angeles, un uomo che studia l'amore sezionandolo a freddo, come un entomologo con le sue farfalle, per poi confessare di non saperne nulla. È l’intelletto che ha divorziato dal sentimento, un vuoto riempito dal rumore di feste perpetue e relazioni superficiali. Sarah, al contrario, è un eccesso di sentimento che non trova contenitori adeguati. Appena uscita da un divorzio doloroso e da una battaglia per la custodia della figlia, ama troppo, ama male, ama in modo soffocante. È un fiume in piena che, non trovando un argine, straripa e allaga ogni cosa.
Il loro ricongiungimento non è una riconciliazione, ma una collisione di due opposte patologie emotive. Cassavetes non orchestra questo incontro con la grazia di un drammaturgo, ma con la furia di un espressionista astratto. Come un Jackson Pollock che getta colore sulla tela, il regista lancia i suoi attori in scene che sembrano improvvisate, dilatate, quasi sfinite, alla ricerca di una verità ontologica che può emergere solo quando la sceneggiatura si fa da parte e la vita irrompe. La macchina da presa, febbrile e curiosa, non si limita a osservare; pedina, scruta, invade lo spazio personale dei personaggi, costringendoci a un’intimità che è al contempo imbarazzante e rivelatrice. È la stessa grammatica visiva che Ingmar Bergman usava in Scene da un matrimonio, ma se lo svedese operava con la precisione di un chirurgo in un ambiente asettico, Cassavetes lavora come un medico di guerra in un campo di battaglia, tra schegge di dialogo, esplosioni di risate isteriche e silenzi assordanti.
La sequenza più emblematica, quella che eleva il film da dramma familiare a parabola esistenziale, è l'arrivo di Sarah a casa di Robert. Non arriva da sola. Porta con sé un'arca di Noè in miniatura: due pony, un cane, un'oca, capre, polli. "Ho portato la fattoria!" esclama con una gioia disperata. È un gesto folle, impraticabile, sublime. È il tentativo, quasi infantile, di portare la vita, la natura, il disordine dell'amore in un mausoleo di edonismo sterile. In questo gesto c’è tutto Dostoevskij, l'atto incomprensibile e purificatore di un "santo folle" che cerca di salvare un'anima dannata con un atto di amore puro e irrazionale. Sarah non sta semplicemente traslocando; sta compiendo un rituale, un esorcismo contro la solitudine del fratello, offrendo un amore goffo, ingombrante, un amore che puzza di stalla e sporca i tappeti, ma che è disperatamente vivo.
Love Streams si inserisce in un contesto, quello degli anni '80 reaganiani, dominato da un'estetica levigata, da un ottimismo di facciata e da un cinema che celebrava l'eroismo muscolare e la vittoria facile. In questo panorama, il film di Cassavetes è un atto di resistenza culturale. Prodotto, in un cortocircuito estetico quasi comico, dalla Cannon Films di Menahem Golan e Yoram Globus – all'epoca sinonimo di action movie a basso costo con Chuck Norris e Charles Bronson – il film è l'antitesi di tutto ciò che lo circonda. È un grido lanciato contro la superficialità, un’elegia della fragilità in un'era che idolatrava la forza. Robert, con la sua ricerca spasmodica del piacere per eludere il dolore, è l'uomo del suo tempo, mentre Sarah, con il suo carico di amore ingestibile, appare come una creatura fuori epoca, una reliquia di un'età in cui i sentimenti avevano ancora un peso specifico.
La narrazione procede per accumulo di momenti, non per concatenazione di eventi. La gita a Las Vegas, dove Robert cerca goffamente di riconnettersi con il figlio, è un capolavoro di patetismo e fallimento. Il tentativo di far ridere il bambino con una serie di gag forzate è la metafora perfetta della sua incapacità di comunicare su un piano autentico. Le sequenze oniriche, quasi operistiche, che squarciano il realismo della messa in scena, non sono fughe dalla realtà, ma immersioni ancora più profonde nell'inconscio dei personaggi, nei loro desideri e nelle loro paure. In questi momenti, il film sfiora le atmosfere di un Tarkovskij trasferito nei sobborghi di Los Angeles, dove la nostalgia non è per una patria perduta, ma per una connessione umana primordiale che sembra irraggiungibile.
L'intera opera è pervasa da un senso di fine imminente. È l'ultimo film in cui Cassavetes si dirige e il penultimo della sua carriera. La sua performance è un atto di nudità totale, quella di un uomo che sente il tempo scorrere via e fa i conti con la propria mortalità, con i propri fallimenti come artista e come essere umano. La chimica tra lui e Gena Rowlands è qualcosa che va oltre la recitazione; è la cronaca di una vita condivisa, di un amore simbiotico e conflittuale, trasfigurato in arte. Ogni loro sguardo, ogni loro litigio, ogni loro abbraccio impacciato sembra contenere decenni di storia comune.
Il finale, avvolto da una tempesta biblica, è tanto enigmatico quanto potente. Robert, solo nella sua casa svuotata, vede Sarah trasformata, ringiovanita, quasi un'apparizione angelica. È reale? È un sogno? O è la proiezione del suo bisogno disperato di credere che l'amore possa, in qualche modo, salvare e trasfigurare? Cassavetes non offre risposte. Come suggerisce il titolo, tratto dalla commedia teatrale da cui il film è liberamente ispirato, l'amore non è uno stato, né una destinazione. È un flusso continuo. Può essere una corrente gentile o una piena distruttiva, ma non si ferma mai. Love Streams non ci insegna ad amare; ci mostra l'amore nella sua forma più caotica, dolorosa e ineluttabile. Non è un film che si guarda, ma un'esperienza che si subisce, un'onda che ci travolge e che, anche dopo essere passata, ci lascia addosso il sapore salato delle lacrime e dell'oceano. Un capolavoro assoluto, il punto terminale e più luminoso di una ricerca cinematografica che non ha mai smesso di credere che nel cuore del caos si nasconda la più straziante delle verità.
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