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Luci d'inverno

1963

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Luci d'Inverno è un'opera più austera, più fredda, ma forse ancora più radicale di altre gemme del cinema di Ingmar Bergman. È il pannello centrale della cosiddetta "Trilogia del Silenzio di Dio", incastonato tra il delirio schizofrenico di Come in uno Specchio e la totale assenza di Dio di Il Silenzio, e ne è senza dubbio il capitolo più puro e formalmente rigoroso. Se un film come Sinfonia d'Autunno è un'esplosione emotiva, una supernova di risentimento e amore filiale, Luci d'Inverno è un'implosione spirituale, il collasso di una stella di fede in un buco nero di dubbio. È uno dei film più difficili e desolati mai realizzati, ma la sua onestà intellettuale è così disarmante e la sua arte così distillata da renderlo essenziale per la storia del Cinema.

Il film è un requiem per la fede nell'era moderna, un'era di ansia nucleare e di crescente secolarizzazione. Racconta poche, grigie ore nella vita di Tomas Ericsson, un pastore di una piccola comunità rurale svedese che, dopo la morte della moglie, ha perso anche la capacità di credere in un Dio che rimane ostinatamente, assordantemente silenzioso. La fotografia di Sven Nykvist, collaboratore fondamentale di Bergman, è glaciale, quasi documentaristica. Su indicazione del regista, Nykvist studiò la qualità della luce naturale all'interno delle chiese di campagna durante l'inverno, e il risultato è un'opera che sembra illuminata da un sole pallido e malato. La luce non offre calore né rivelazione; si limita a rendere visibile il gelo, sia quello esterno che quello dell'anima. Le composizioni, nella loro nuda semplicità, ricordano quasi i dipinti di Morandi, con i loro interni spogli e le loro figure solitarie immerse in una quiete carica di malinconia. È un film fatto di volti, di silenzi e di domande che non trovano risposta. La crisi di Tomas non è solo religiosa, è esistenziale: come si può dare conforto agli altri quando non se ne ha per se stessi? Come si può parlare d'amore, divino o umano, quando si è incapaci di riceverlo?

Luci d'Inverno si inserisce in un dialogo artistico pan-europeo. Bergman non era solo. In quegli stessi anni, altri profeti dell'incomunicabilità stavano mappando il deserto spirituale del dopoguerra. Il parallelo più immediato è con Michelangelo Antonioni, i cui personaggi vagano in paesaggi urbani o industriali che sono lo specchio del loro vuoto interiore. Ma c'è una differenza cruciale: l'incomunicabilità di Antonioni è una malattia della modernità, un'alienazione sociale ed emotiva. Quella di Bergman è un'alienazione teologica. I suoi personaggi non riescono a comunicare tra loro perché hanno perso il loro interlocutore primario: Dio. È da questo silenzio cosmico che discende la loro incapacità di amare e di essere amati. Un altro grande dialogante a distanza è Andrej Tarkovskij, che come Bergman esplorava la fede e il dubbio. Ma se il cinema di Tarkovskij è una lotta estenuante verso un barlume di grazia, una ricerca di trascendenza, quello di Bergman in questa fase è la cronaca di una sconfitta, lo studio di una fede che si spegne. Registi successivi come Wim Wenders e Jim Jarmusch erediteranno questa sensibilità, raccontando storie di personaggi alla deriva in un mondo svuotato di grandi narrazioni, ma spesso lo faranno con un filtro di ironia o di coolness che era del tutto estraneo alla sincerità quasi masochistica di Bergman.

Al centro del film c'è il collasso della Parola, il decadimento del Logos. Tomas è un pastore, un uomo il cui mestiere è dispensare il Verbo divino, la parola che dovrebbe portare conforto, senso e salvezza. Ma il suo Logos è diventato vuoto. Recita sermoni scritti da altri, le sue preghiere sono formule meccaniche. La comunicazione, in questo mondo gelido, diventa una malattia. Quando Jonas, un pescatore tormentato dall'ansia della bomba atomica, si rivolge a lui in cerca di aiuto, Tomas non sa offrire altro che la sua stessa, contagiosa disperazione. Invece di salvarlo, lo "infetta" con il suo dubbio, accelerandone il suicidio. Allo stesso modo, l'amore umano, rappresentato dalla maestra Märta, si esprime attraverso una lunga e straziante lettera, un tentativo disperato di comunicazione che viene respinto da Tomas con una crudeltà agghiacciante. Le parole non costruiscono ponti, ma scavano abissi. Non guariscono, ma svelano e trasmettono il dolore.

Per questo i silenzi in questo film sono così eloquenti. Non sono semplici pause nel dialogo. Sono il personaggio principale del film. Sono il Silenzio di Dio fatto presenza acustica. È un silenzio attivo, carico di tensione, un vuoto che i personaggi tentano goffamente di riempire con le loro parole inadeguate, riuscendo solo a renderlo ancora più evidente. I lunghi primi piani di Bergman sui volti dei suoi attori sono spesso inquadrature di persone che ascoltano questo silenzio, che attendono una risposta che non arriverà mai. Il silenzio dopo la notizia del suicidio di Jonas, il silenzio nella sacrestia, il silenzio della chiesa vuota: non sono assenza di suono, ma la presenza palpabile di un'assenza, quella di Dio. Il finale è una delle conclusioni più ambigue e potenti della storia del cinema. Dopo aver perso un parrocchiano e aver brutalmente respinto l'unica persona che lo ama, Tomas decide di celebrare comunque la funzione pomeridiana. L'organista glielo sconsiglia: in chiesa non c'è nessuno, a parte Märta. Ma Tomas insiste. Si avvia verso l'altare per iniziare il rito in una chiesa vuota. Cosa significa questo gesto? È un atto di fede rinnovata, più umile, celebrata non per un Dio assente ma per l'unico essere umano rimasto ad ascoltare? È un atto di disperata, assurda ostinazione, un rito svuotato di ogni significato, un'abitudine che continua per inerzia? O è l'inizio di qualcos'altro? Bergman non ci dà alcuna risposta. Ci lascia soli, in quella chiesa vuota, a contemplare il dubbio. E in questa radicale onestà, in questo rifiuto di ogni facile consolazione, risiede la grandezza immortale del film.

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